Stimata accademica, scrupolosa studiosa del cinema e della serialità televisiva, ma anche saggista e teorica, Iris Brey ha esplorato negli anni la complessa nozione di female gaze, ovvero lo sguardo femminile, e in un seminale saggio (Le Regard féminin – Une révolution à l'écran) pubblicato nel 2020. Contrapponendosi a un approccio patriarcale e falloccentrico alla produzione audiovisiva (ovvero lo sguardo maschile), allora - come oggi - dominante, il libro ha proposto riflessioni concrete per cortocircuitare questo ordine costituito. Passando adesso dall’altro lato, la studiosa diventata showrunner si sforza di seguire le “regole” che lei stessa ha stabilito per rendere la sua prima serie – Split, sviluppata per la piattaforma televisiva francese Slash – un rivoluzionario caso di sguardo femminile applicato.

La scelta della serialità televisiva, così come del canale di diffusione privilegiato (la piattaforma online e gratuita della tv pubblica francese) non è casuale, ma arriva dopo un lungo ragionamento su come la scrittura e la produzione seriale abbiano contribuito ad una più diffusa rappresentazione dello sguardo femminile, essendo la serie non tanto frutto di una sola autorità (quella del regista) ma il risultato di una collaborazione di diversi registi, di diversi sceneggiatori e di un’organizzazione più collegiale. Una serie può essere creata solo in modo collaborativo ed è proprio questa sua peculiarità che sfida l’idea di dominio e si riflette spesso nelle opere. Iris Brey disinnesca la concezione tirannica del regista, l’immagine del creatore torturato che viene prima di tutti gli altri e che deve difficilmente districarsi tra le esigenze altrui per non “macchiare” la propria idea - monolitica - dell’opera (una posizione di dominio oggi messa in discussione dalla tanto osteggiata professione del “coordinatore d’intimità”, al centro di un altrettanto fondamentale documentario di cui Brey è co-sceneggiatrice: Sex is Comedy - La révolution des coordinatrices d’intimité).

Nei cinque episodi di Split, conosciamo Anna (Alma Jodorowsky), una stuntwoman di 30 anni che si innamora della star a cui fa da controfigura: Eve (Jehnny Beth), famosa cantante e aspirante attrice, che ha fatto outing da tempo. Se pensava di essere felice nella sua relazione con Nathan (Ralph Amoussou), che è anche direttore della fotografia sul set, Anna si ritrova a fare i conti con questo desiderio ardente che si impone su di lei e la interroga, facendole riconsiderare la propria presunta eterosessualità. La serie, però, anziché - come normalmente avviene - cavalcare le conflittualità ed esasperare i sensi di colpa (femminili, rispetto al maschio che viene “tradito”), sceglie di immaginare un’utopia in cui ogni personaggio risponde al proprio disorientamento non con la violenza ma con la comprensione e la tenerezza. Quella di Split è una storia in cui sostanzialmente non esistono antagonisti, in cui emerge una nuova e altrettanto accogliente idea di famiglia, in cui si indaga il potere delle amicizie femminili e della sorellanza come strumento per rimettersi in piedi, per imparare ad amare e liberarsi delle restrizioni imposte dalla morale comune. 

Come indica la polisemia della parola inglese, Split è un racconto di separazione e di divisione, ma anche di condivisione e ridistribuzione. Un manifesto teorico, ma anche una storia d’amore avvolgente, la cui dolcezza e lirismo trascendono qualche imbarazzo. Iris Brey ci mostra un’altra strada possibile, “one way to dykeland”, come canta Rebeka Warrior nella colonna sonora (composta insieme a Maud Geffray). Un biglietto di sola andata per entrare nel lesbismo, inteso come laboratorio di emancipazione collettiva e intima, strumento di gioia, complicità e dialogo. Mettere al centro lo sguardo femminile è però un gesto eminentemente politico in quanto trasforma un’esperienza considerata minoritaria in un’esperienza maggioritaria. E affinché l’esperienza femminile possa essere vissuta da chi si trova davanti allo schermo, indipendentemente dal proprio genere di appartenenza, è necessario che dall’immagine emerga un linguaggio comune, una simbiosi tra la storia che viene raccontata e il linguaggio cinematografico che la mette in scena.

Ed è per questo che Iris Brey sceglie di utilizzare la tecnica dello split-screen, riscrivendone la grammatica di base. Non tanto cesura tra due azioni simultanee che avvengono lontane nel spazio, ma amplificazione e sdoppiamento di un sentimento comune e condiviso. Una linea che non si limita a separare, ma che può anche significare riparazione, associazione di immagini in senso generativo. Nelle scene di sesso, questo permette di evitare qualsiasi forma di voyeurismo, richiedendo allo spettatore una partecipazione sempre attiva di decodifica. Se è quindi facile pensare all’uso dello split-screen fatto da De Palma in Passion (in cui la relazione sessuale tra due donne diventava la base per un thriller erotico), è altrettanto possibile misurare il divario tra un film come quello e una serie come Split. Il desiderio tra due donne non si riflette nell’equilibrio di potere, vampirico e distruttivo, ma l’erotismo passa attraverso la reciprocità e il consenso (che, nel chiederlo, diventa anch’esso un dispositivo di piacere), capovolgendo e dissolvendo la convenzionale aggressività di queste storie quando vengono raccontate attraverso il male gaze. 

Iris Brey snocciola la sua cultura cinematografica, giocando con lo spettatore, aprendo strade inaspettate e riparando le colpevoli omissioni nel modo in cui la storia del cinema è stata raccontata, rendendo invisibili le pioniere del mezzo (ad esempio l’assoluta marginalizzazione di una regista come Alice Guy rispetto ai suoi contemporanei Lumière e Méliès). Così ci imbattiamo nei nomi di Colette e Violette Leduc, negli estratti dal film Thèmes and Variations [1928], della poco nota regista Germaine Dulac, o ancora nella voce fuori campo di Delphine Seyrig (senza menzionare che il biopic che le due protagonista stanno girando riguarda l’attrice Musidora, all’anagrafe Jeanne Roques, qui finalmente spogliata dell’esclusivo ruolo di “musa” per il genio maschile di Louis Feuillade).

Split fa del desiderio condiviso di una donna per un’altra (e quindi di uno sguardo doppiamente femminile) il suo oggetto di studio tanto quanto il motore del suo racconto, riaffermando il sesso lesbico come una questione di presenza e consapevolezza, in opposizione ad un tipo di sessualità cinematografica in cui le donne sembrano dissociarsi dai loro corpi e dalle loro menti durante la consumazione del rapporto etero. Allo stesso tempo però, la serie, trovando nuovi modi per inquadrare il corpo femminile e inventandone altri per rappresentare ciò che è sempre stato considerato osceno (fuori dalla scena), come secrezioni vaginali e sanguinamenti mestruali, afferma con forza come quella dello “sguardo femminile” sia soprattutto una battaglia da combattere sul piano della forma, dell’estetica e dell’inquadratura (e quindi, in tal senso, intersezionale).

Lo sguardo femminile non è quello che si limita a filmare gli uomini come oggetti sessuali (specularmente a quanto avviene con le attrici) o che deve essere esclusivamente associato alla produzione di registe donne. È uno sguardo che non si oppone ma si differenzia radicalmente da quello maschile. È una proposta nuova, un rapporto più orizzontale tra il creatore di un’opera e lo spettatore. Un infinito campionario di possibilità per il cinema che verrà.