Esploso tardivamente nel mainstream con il bellissimo Tangerine (tardivamente considerando che si trattava già del suo quinto film), l’americano Sean Baker è passato negli ultimi anni da essere considerato un autore di atmosfere, situazioni, luoghi, famoso per il suo metodo di lavoro quasi documentaristico con non professionisti davanti alla macchina da presa, ad essere stimato innanzitutto come un regista capace di tirare fuori il meglio dai propri attori, scelti con infallibile precisione a seconda della sceneggiatura, anche tra gli emergenti, le “seconde e le terze linee”, non per forza tra quelli più in voga nel panorama hollywoodiano, come ampiamente dimostrato in coppia con Simon Rex nel precedente Red Rocket (studio di un personaggio piuttosto monotono illuminato però da una prova fenomenale di un attore fino a quel momento conosciuto solo per i suoi ruoli demenziali nei vari Scary Movie). Pur avendo cambiato il suo stile e facendo oggi molto più affidamento sulla sceneggiatura rispetto agli inizi, quello di Baker è rimasto un cinema principalmente interessato a raccontare la classe media e gli strati più poveri della società statunitense, mappando l’America contemporanea attraverso le sue comunità marginali e attraverso la figura centrale del cosiddetto “hustler”: termine pressoché intraducibile che indica, genericamente e benevolmente, chi si guadagna da vivere con ogni stratagemma (o, in senso dispregiativo e più specifico, chi vende il proprio corpo). Stavolta la stella da far brillare (d’altronde il suo nome, “Anora”, vuol dire proprio quello nella lingua natia) è la giovanissima comica Mickey Madison, ai più conosciuta come Max Fox nella serie Better Things, che fin da subito ci appare irresistibile per il modo giocoso e malizioso con il quale offre la propria sessualità, per la spavalderia con cui contratta le prestazioni nel locale a luci rosse nel quale lavora. Con pochissimi gesti capiamo tutta la sua potenza, la sua scaltrezza, il desiderio di riscatto che la agita, ma anche la tenerezza, la fragilità che la spinge a lasciare tutto per il sogno di una storia d’amore vera.

Fissata questa immagine di lei, con l’avanzare della trama, la protagonista diventa tutta un’altra cosa, non più connotata da dolcezza e giovanile spudoratezza, ma da rabbia e insubordinazione, persino violenza, nel momento in cui comincia a sgretolarsi quell’idillio iniziale così minuziosamente rappresentato, l’utopia di annullamento delle differenze sociali che Baker - da ottimo prestigiatore - aveva reso plausibile non solo davanti agli occhi della giovane ragazza, ma anche davanti agli occhi del suo pubblico. Madison accompagna funambolicamente i numerosi cambi di genere e registro di questo ultimo film del regista, che prima finge di essere una continuazione del precedente Red Rocket (un’altra storia d’amore al limite, in cui il sesso è sia piacere che obbligo professionale) per poi diventare tutt’altro: una commedia di “confinamento” basata sulla comicità slapstick, poi un road movie e alla fine una romcom dai toni più malinconici. Il film lavora eccezionalmente d’ensemble, facendo emergere di volta in volta questo o quel comprimario. Ognuno di loro, nessuno escluso, ad un certo punto ruba la scena agli altri e si ritaglia un proprio momento memorabile, capace di cristallizzarne le caratteristiche principali. Tra questi, spicca l’eccezionale Jurij Borisov, che nel film ricopre il ruolo di “spettatore” dolaniano: quel personaggio parzialmente esterno agli eventi che si può permettere il lusso di commentarli con distacco, di assumere in sé il punto di vista dello spettatore. Baker torna ogni volta da lui, si ferma sul suo viso, quando il film cambia tono, utilizzandolo per chiarire a chi guarda quello che sta succedendo e qual è l’umore generale in una data situazione. Ed è lui, poi, il protagonista di un finale che nuovamente sfida le aspettative e chiude la narrazione con una coda anticlimatica e di straniante gestualità, in cui la sicurezza della propria potenza sessuale vacilla davanti a un possibile sentimento (una scena bellissima, forse la migliore di tutta la filmografia di Baker, che ci permette di leggere sotto una nuova luce anche la protagonista).

Anche il sesso, infatti, onnipresente specialmente nella prima metà, è utilizzato in maniera molto più intelligente rispetto al precedente lavoro. Non solo banalmente veicolo di stati d’animo contraddittori, territorio di indagine psicofisica e psicomotoria su prestazioni, posizioni e relative inquadrature, ma elemento fondamentale nella definizione dei personaggi, capace di suggerire qualcosa di cruciale sulla loro personalità ancora prima che la si apprenda dagli avvenimenti. Baker utilizza un linguaggio cinematografico da gangster movie newyorkese tarato su Scorsese, Lumet o, più recentemente, sui fratelli Safdie, trovando un eccezionale punto di equilibro tra ferocia (soprattutto urlata, in estenuanti turpiloqui) e gentilezza (dello sguardo), ponendo il conflitto alla base di tutta la narrazione e di ogni infinita ed esilarante discussione. Alla fine, in Anora succede ben poco, ma questo pochissimo diventa materiale infinito nelle mani di un ritrattista generoso come Baker, capace di estrapolare tantissimo da ogni situazione, ma anche - e questo film lo dimostra più di altri - di concepire avventure di avvincente minimalismo, imbastite non tanto per raccontare una storia lineare ma per porre i suoi protagonisti in situazioni differenti, così da giocare in maniera sempre nuova con il loro corpo, con la loro acrobaticità, dimostrando come sia possibile veicolare ogni singola emozione con le proprie movenze atipiche e descrivere la complessità psicologica di un personaggio mettendo in ogni gesto il suo carattere e la sua età.