Enigmatico e inafferrabile, Il Ragazzo e l’Airone scava nelle memorie ancestrali del maestro dell’animazione giapponese, che, completamente libero dai lacci della sceneggiatura, lascia correre la sua immaginazione affidandosi esclusivamente al proprio miracoloso intuito per le immagini. Hayao Miyazaki firma così una versione maschile e pessimista de La Città Incantata, di cui riprende temi e persino alcune delle soluzioni visive più famose. A differenza delle tribolazioni della piccola Chihiro, però, quelle di Mahito restano lontane dal condurre alla presa di consapevolezza con cui tipicamente si concludono i racconti di crescita ed elaborazione del lutto, ma delineano un’emancipazione più problematica, in cui lo sradicamento e il sentimento di abbandono non si risolvono in una ricomposizione totalmente felice. Alla domanda che viene posta nel meraviglioso titolo giapponese - “E voi, come vivrete?” (dopo ciò che avete visto e vissuto, è il sottotesto) - non viene mai data risposta ed è anzi lo stesso spettatore a rivolgere il quesito a sé stesso dopo la visione di un film con cui è molto più difficile “empatizzare” rispetto ai classici Ghibli, che finisce senza spiegare cosa il suo eroe abbia appreso dal viaggio che ha appena compiuto. Un’opera che lascia al pubblico il compito di analizzare autonomamente le sensazioni e le riflessioni suscitate da un racconto così scostante, indagare significato di immagini mai univocamente date. Tutto, ne Il Ragazzo e l’Airone, affronta un passaggio da dentro a fuori - dal “dentro” del mondo fantastico al “fuori” del mondo reale, in un costante movimento di esondazione e tracimazione (dalle viscere, dalle acque ecc.) - ed è sottoposto ad una gravità che spinge le immagini a crollare su loro stesse, rendendo difficoltosa qualsiasi traiettoria di ascensione. Dentro e fuori lo schermo, quindi, in un ridimensionamento dell’opera cinematografica che, una volta consegnata all’esterno, si sgonfia, si rimpicciolisce, si “normalizza” rispetto alle ambizioni del suo creatore.

Miyazaki si immagina come un attento costruttore di mondi dal fragilissimo equilibrio, incapace di trovare un erede che possa prendere in mano il suo lavoro e continuare sulla strada da lui tracciata (una metafora, mai così esplicita, del difficile destino dello studio dopo di lui). Il film finisce, anche per questo, col superare tutti i precedenti lavori Ghibli nell’incessante ripetizione degli stessi movimenti di proliferazione e collasso che ne hanno caratterizzato la lunga storia. Se la proliferazione indefinita degli alberi ne Il mio vicino Totoro occupava al massimo una scena, così come quella degli Ohmu in Nausicaä della Valle del Vento era giustificata dalla trama, o ancora i collassi ne La Principessa Mononoke e in Laputa: Castello nel Cielo, collegati a precise svolte narrative, ne Il Ragazzo e l’Airone gli aumenti ingiustificati in numero e dimensione di creature e materia, così come le immagini di sfaldamento, scioglimento e demolizione, si verificano ovunque ripetutamente. Ciò che nasce da questa pulsazione è un senso del ritmo difficilmente riscontrabile altrove, dal momento che non è alla costruzione di una storia che gli animatori si dedicano, ma alla coreografia di sussulti repentini e simultanei che tendono all’aumento e allo sdoppiamento di figure e simboli: sdoppiata è infatti la faccia dell’Airone ed è attraverso lo sdoppiamento che si può risolvere il conflitto tra madre e figlio (nel riconoscimento di due madri). L’esistenza stessa, la sua pienezza e la sua elettricità - che nel film non è soltanto metaforica - si sintetizza in un movimento ineluttabile di accrescimento e distruzione, che rende inutile e forse dannoso qualsiasi tentativo di protezione dello status quo e di trasmissione del passato.

Il fantasma della mamma defunta di Mahito, divenuta bambina, accompagna il figlio in un viaggio che ha come scopo ultimo il riconoscimento della legittimità della sua nuova mamma, ovvero la seconda compagna del padre, già in attesa di un bambino (ulteriore aumento rispetto al dato iniziale, in senso di procreazione). Il passato, quindi, si fa viatico per il futuro e chiede di essere dimenticato affinché si possa andare avanti. Coerenza e caos, moderazione e straripamento, calma e agitazione: tutto il cinema di Miyazaki è sempre stato in tensione tra queste opposizioni di fasi che si dispiegano ad ogni movimento narrativo, in ogni salto da un mondo all’altro, fino a coinvolgere l’aspetto fisico delle sue creature, continuamente cangiante e mutevole, di una complessità irrisolvibile tra nature differenti. Non solo Il Ragazzo e l’Airone non fa eccezione, ma sembra interamente concepito per essere un’applicazione estrema di questa idea che trova, per la prima volta, rispondenza in un tratto che si prende la licenza dell’imprecisione, quando non proprio della deformazione, specialmente nelle scene ambientate nel mondo reale, quando l’alterità del protagonista rispetto al resto è data proprio dai maggiori dettagli che ne caratterizzano il disegno, in cui la soggettività prende il sopravvento e diventa l’unica lente attraverso la quale osservare un mondo in cui non ci si riconosce e in cui “gli altri” sono ridotti a massa ostile e indefinita di gente. 

La tradizione, in questo racconto di Miyazaki, è un peso, ciò che impedisce di accettare l’inevitabile conclusione di ogni cosa e quindi di comprendere finalmente che solo accogliendo la fine si può immaginare l’inizio di qualcosa di differente (geniale, in questo senso, la centralità che viene data al materiale di cui sono fatte le tombe). Il demiurgo fuori e dentro il film sta pensando a ciò che verrà dopo, quando non ci sarà più lui a controllare tutto. Resiste fino all’ultimo nelle sue idee, difendendosi dai famelici predatori che vorrebbero prendere il suo posto con la violenza (i parrocchetti, che nascondono coltelli dietro la schiena). Ma anche lui non ha ben chiaro quale sia la scelta più giusta per il futuro: designare un erede o affondare con tutto ciò che si è creato, sperando che sulle ceneri di quel glorioso passato qualcuno possa trovare la forza di costruire ancora? Di erigere una nuova torre magica per accedere a ulteriori e infiniti abissi di immaginazione, orrore e meraviglia?