Così attento a sottolineare in ogni momento come tutte le parole (e persino i colpi di tosse) dei tre attori in campo siano dettate e condizionate dalle registrazioni ufficiali dell’FBI su cui si regge la narrazione del film, Reality riduce il racconto ad un minimalismo quasi concettuale, rendendo evidente quanto siano superflui e inutili certi orpelli tipici della scrittura drammaturgica, spesso così poco aderenti alla realtà delle conversazioni quotidiane e distanti dal linguaggio corrente delle persone. Perché è invece proprio questa attenzione al reale, con le sue incertezze, le sue ripetizioni, i suoi imbarazzi, che permette a Tina Satter di restituire la tensione autentica del momento e al tempo stesso di astrarlo completamente nella sua assurdità umana e nel suo essere, in ogni caso, messa in scena, esecuzione teatrale, performance quasi ricattatoria e predatoria. La semplicità e l’asciuttezza della trascrizione limita e allo stesso amplifica le possibilità drammatiche, eppure la regista sembra, in alcuni momenti, temere l’austerità e il rigore del suo stesso film, scuotendolo con delle interferenze visive che sottraggono i corpi allo schermo e che, paradossalmente, lasciano lo spettatore a contemplare il vuoto del cinema quando questo vuole farsi a tutti i costi thriller, marchingegno narrativo.

Reality Winner non ha una personalità unica e carismatica come quella di Edward Snowden o Chelsea Manning, ed è proprio questa ordinarietà che permette a Satter di umanizzare la figura del “whistleblower” e rendere ancora più violenta l’incursione nello spazio domestico di due uomini sospettosamente affabili: l’agente Garrick (Josh Hamilton) e l’agente Taylor (Marchánt Davis), le cui buone maniere nascondono evidentemente solo la necessità di ottenere una confessione nel minor tempo possibile. Hamilton attinge al calore e alla sincerità con cui aveva caratterizzato il padre in Eighth Grade di Bo Burnham, deformandone i tratti fondamentali, mentre Davis riprende intelligentemente il suo ruolo in The Day Shall Come di Chris Morris. Alle finte premure di questo microcosmo maschile di agenti, uomini della scientifica e poliziotti, l’unica donna sulla scena (Sydney Sweeney, ovviamente l’accusata) cerca di contrapporre una altrettanto finta tranquillità, di prendere tempo e capire cosa dire e quando. Un lusso che le è concesso forse dalla sua condizione di “privilegiata”. In maniera sotterranea, infatti, il film di Satter sembra voler alimentare il dubbio che il trattamento con i “guanti di velluto” che viene riservato a Reality, se pur finalizzato al raggiungimento di un obiettivo, sia sintomo di un atteggiamento distensivo valido solo quando si è davanti ad una giovane donna bianca della classe medio-borghese, con un buon livello di istruzione, e che probabilmente non sarebbe stato adottato se l’accusata fosse stata una donna di colore nella periferia americana.