Massimo Troisi è stato uno dei grandi maestri del vuoto. Così Enrico Ghezzi, in maniera come al solito definitiva, celebrò nel 1987, durante una puntata del programma Va Pensiero, un cinema, quello di Troisi appunto, fatto di monologhi inconcludenti, frasi appena accennate, “parole smozzicate” e frammenti che trovavano il loro senso proprio nell’incompiutezza che chiamava sempre altro, che richiedeva sempre di proseguire il discorso. Ed è da questa stessa intuizione che Mario Martone sembra aver cominciato a comporre-scrivere il suo documentario Laggiù qualcuno mi ama, senza l’arroganza di voler riempire i tanti “vuoti” nella poetica di Troisi, di esplicitare tutti quei non detti che ne costituivano la potenza e il fascino, ma bensì mosso da una genuina voglia di far “parlare l’archivio”, di riflettere (su) Troisi attraverso l’unico prisma possibile che è quello di Troisi stesso, delle sue parole, delle sue immagini, dei suoi appunti sul taccuino. Schegge, frammenti taglienti e difficili da maneggiare, che trafiggono un cinema che arriva sempre tardi, nel suo essere inconsapevole passato, evento già accaduto, negazione del movimento e, allo stesso tempo, paradossale riproposizione della vita (anche con i film, come con i libri, non si può mai stare al passo della loro produzione, parafrasando una celebre frase de Le vie del signore sono finite). Martone, nel suo tagliare, ricucire, interrompere e riavviare le scene più memorabili della filmografia di Troisi, esaspera questa crepa, l’impraticabilità del linguaggio, e rileva così il vero battito di quello stare al mondo (e sullo schermo) programmaticamente inadeguato e altero.

Come già accadeva nello speciale televisivo del 1982, in cui Troisi si rappresentava per quasi tutto il tempo come salma, corpo immobile in una camera ardente, il repertorio cinematografico-televisivo diventa l’unica testimonianza di un’esistenza scaramanticamente interrotta sul più bello. Se Troisi rimetteva in circolo tutte le sue immagini già passate e ripassate in TV, dalle cerimonie di consegna dei premi alle interviste in studio (tra cui anche quella con Pippo Baudo, che torna pure nel film di Martone), era per mettere a nudo il proprio corpo d’attore comico di fronte al fantasma di ciò che era già andato in onda. Martone esalta l’intensità rosselliniana dell’antidecisionismo di Troisi, quel suo modo di porsi e di comunicare con lo spettatore, già intrinsecamente più filmico della carrellata più elaborata o del montaggio più creativo che si possano immaginare. Tracciando connessioni e coraggiosi parallelismi (tra cui quello con Truffaut, suggerito in tempi non sospetti proprio da Ghezzi), Laggiù qualcuno mi ama consegna il ritratto di un attore-autore nervosamente flemmatico, affabulatore ma senza l’evidente dispendio fisico, l’urlo, lo sforzo, il sudore, l’esagitazione degli altri grandi comici della sua generazione (o dei corpi predisposti alla corsa della nouvelle vague, appunto).

Il regista-critico-cinefilo napoletano sceglie Anna Pavignano, storica co-sceneggiatrice dei film di Troisi, come co-autrice del suo documentario, per poter così accedere a quei ricordi (materiali e immateriali) che fino a questo momento erano stati inaccessibili al pubblico. Per il resto, invece, Martone decide di non ascoltare quasi mai quelle persone che Troisi lo hanno effettivamente conosciuto, che hanno lavorato con lui e condiviso un pezzo di strada assieme, ma di intervistare invece chi lo ha incontrato solo attraverso la sua arte e il suo cinema. A dimostrazione che non serve altro per raccontare l’uomo Troisi se non l’opera che ci ha lasciato (e non è un caso che torni spesso un certo, sottolineato, pudore del regista nel ritrarsi quando si rischia di sconfinare nella sfera privata). Un’opera che è tutt’uno con la vita stessa. Che della vita ha la forma, l’andamento, la “sorte” e la “morte”, che non ha bisogno di altri livelli di lettura se non quelli immediatamente disponibili allo spettatore.