Ci vorranno tre ore di festini, esplosioni e meteorismi prima che Damien Chazelle, al termine del suo baldanzoso e rumorosissimo Babylon, ammetta in tutta onestà la sconfitta rispetto al film che aveva il desiderio di rifare (plagiare?) e ampliare: quel Singin’ in the Rain che nel 1952 fu effigie di una Hollywood travolta dal sonoro, in cui l’energia comica e lo slancio amoroso trovavano una loro sintesi in una impeccabile stilizzazione coreografica. Pur nella sua smodata ambizione, il kolossal di Chazelle si trascina verso un finale che si confronta con quel modello lì e, per forza di cose, ne ridimensiona le aspirazioni iniziali, nella convinzione che è impossibile ormai proporre davvero qualcosa di originale (sul grande schermo, forse altrove sì?), che tutto è condannato ad essere pastiche cinematografico, Frankenstein post-moderno. Il racconto di Chazelle si presenta perciò nella forma di una fantasia che si svolge nella mente di un disperato appassionato-cinefilo, prima spettatore e poi regista, che ausculta i testi di autori diventati polvere da decenni per registrarne il battito e cogliere in essi un soffio di vitalità che possa rianimare il corpo stremato del cinema presente.

Nel caos che vuole ricreare, facilmente Babylon perde la presa sui suoi personaggi, non li approfondisce adeguatamente e li inserisce ogni volta in contesti che ne soffocano l’umanità. Dovunque si posi lo sguardo della macchina da presa c’è il segno senza rimedio della corruzione: sulla terra «c’è una falla, una vergogna, c’è l’uomo». Parole, immagini, suoni, tutto genera disgusto: orrore, nausea, raccapriccio riflettono con il linguaggio delirante della visione quello che è un mondo in rovina e decadimento, diventato piaga, fetore, disgusto di sé, lacerazione. Chazelle si appella alla perversione della cronaca per giustificare la propria tracotanza narrativa, rifugiandosi nella filologia – vera o inventata che sia – per fondare su un terreno più solido quelle che sono fantasticherie surreali. Da un lato Babylon sente il bisogno di appoggiarsi su citazioni, riferimenti, rimandi alla realtà, dall’altro cerca di abbandonarsi all’incontenibile anarchia delle immagini, che raccontano ciò che vogliono, quel che passa per i loro innumerevoli significati potenziali: sognano, suggeriscono, si lasciano allucinare da sé stesse, con risultati tanto ammalianti quanto ridicoli. Ogni scena è carica di un disvalore sensoriale, una raffica di sconcezze che come pallottole vengono scaricate addosso a chi guarda: le fantasmagorie, messe in scena minuziosamente, ambiscono a uno statuto allegorico e, ancora di più, misterico, ma l’effetto è convulsivo, quasi epilettico.

La colonna sonora di Justin Hurwitz, nei pochissimi momenti di calma e distensione, sembra richiamare i temi di La La Land, per accennarli brevemente e poi annichilirli ricomprendendoli nel nuovo score, sempre più incalzante e privo di quell’elemento malinconico e sognante del musical del 2016. Una raffinatissima soluzione musicale che mette in comunicazione le due opere e spiega benissimo come non ci possa essere più spazio per la tenera ingenuità dei dilettanti (quella che appunto animava i due personaggi di La La Land) quando si raggiunge il successo e si entra nel sistema. Meno efficace è invece il film quando usa i suoi personaggi per vendicarsi, con una buona dose di moralismo, della criminale frivolezza dello star system, dei piaceri che si procacciano questi ricchissimi e vanagloriosi divi, dei privilegi e dei lussi di cui godono, sommergendoli di improperi e liquidi corporei come in Triangle of Sadness di Östlund. È una contestazione dissacrante del divismo che si dispiega in tutte le declinazioni e maniere, tignosamente, al punto da chiedersi se sia indice di una reale presa di posizione o di una più comoda posa da iconoclasta.

Insospettabilmente Babylon si rivela, nel suo incedere scostante e aritmico, molto più vicino al funereo Il Primo Uomo (anche qui c’è una notizia dolorosa comunicata al telefono che cambierà il corso della narrazione), a quella sensazione di fine imminente e impresa che non può essere completata senza una buona dose di tragedia. Il videoclip che fa da coda al film, con il montaggio serrato di decine sequenze filmiche dagli anni Cinquanta ad oggi, forse capovolgendo le reali intenzioni del proprio autore, non appare mai come credibile testimonianza di resistenza e di vitalità del mezzo, ma del fallimento di una lotta (quella per la visione in sala) e del naufragare delle speranze, almeno per un determinato tipo di cinema, di estinguersi con dignità e il più tardi possibile. Come la navicella che conduceva Ryan Gosling sulla Luna, la macchina-cinema hollywoodiana è un veicolo instabile e precario, che perde continuamente pezzi e quota. Non più ascensione, ma caduta (di presenze, incassi, egemonia culturale), dalla quale forse ci potrà salvare in extremis solo un Banshee di Avatar. Chazelle sceglie il franchise di James Cameron per chiudere la sua riflessione sullo stato dell’industria e forse, anche in questo, sta la consapevolezza del fallimento e dell’irrilevanza a cui il suo film è destinato.