La sofferenza e il desiderio di evasione delle donne rinchiuse in gabbie più o meno dorate sono il cuore pulsante della più recente filmografia di Sofia Coppola. Anche in questo caso, infatti, Priscilla è un film esattamente speculare al precedente The Beguiled. Se il primo si chiudeva con la ripresa di un cancello visto da fuori, con la macchina da presa che si allontanava da esso e dalle protagoniste, costrette a rimanere nella loro prigione (il collegio), questo si conclude con un’immagine esattamente opposta: quella di un cancello che si apre, ad annunciare una fuga, che è ovviamente quella di Priscilla Presley dal suo esigente e possessivo marito. Eliminando completamente la mitologia di Elvis dall’equazione (Il Colonnello, ad esempio, figura fondamentale nel biopic di Baz Luhrmann è qui solo un soprannome a cui si fa vagamente riferimento), il film sottolinea con precisione e senza ostentazione l’impunità di cui gode il “genio”, il “maestro” (tema quanto mai attuale, anche nel dibattito cinematografico), il modo in cui lo status di qualcuno gli permetta poi di annientare progressivamente la persona che dice di amare di più senza che nessuno muova un dito. Ritroviamo, inconfondibile e inossidabile, il leit motiv di tutto il cinema di Sofia Coppola: l’adolescenza e la noia, il tormento e l’estasi, gli effetti dell’isolamento, il candore virgineo e la voglia di abbandono (più o meno lascivo).

La più grande intuizione di Sofia Coppola sta però stavolta nella scelta del cast, che le permette di asciugare la messa in scena (elegantissima, ma priva di guizzi) e focalizzarsi sulla giovane attrice protagonista: Cailee Spaeny non dimostra mai i suoi 25 anni, ma sembra invece sempre così pericolosamente piccola, indifesa, inadeguata ai vestiti, alle acconciature, al trucco, che Elvis le chiede di indossare per sembrare più grande e affine ai suoi gusti estetici. Ogni cambiamento che avviene nel suo modo di essere e di apparire si palesa allo spettatore in tutta la sua violenza e crudeltà, giocando sulla sproporzione rispetto al suo fisico minuto e alla sua presenza discreta, volgarizzata da make-up aggressivi. Così, in maniera sottilissima, senza dover fare nulla di eclatante, senza dover costringere il proprio protagonista maschile a melodrammatici showcase di tossicità, Coppola riesce a mettere a disagio il pubblico in ogni momento, rendendo evidente - innanzitutto visivamente - gli abusi e le vessazioni dell’uomo sulla ragazza con con cui vive, troppo giovane, inconsapevole e ingenua per poter gestire una relazione come quella in cui si è trovata catapultata.

Il biopic di Coppola, però, non fa nulla per essere un racconto di formazione, un coming of age, ma anzi annulla completamente qualsiasi possibilità di crescita reale e presa di consapevolezza fin dall’inizio. La relazione della protagonista con Presley, iniziata quando ancora giovanissima, le preclude, anche narrativamente, una vera e proprio evoluzione. La ragazza raccontata da Coppola non compie il viaggio dell’eroe (-eroina), ma viene soffocata nella culla, isolata dalla famiglia e dagli amici, ostacolata nella carriera e nello studio, quindi privata di tutti quei passaggi che generalmente segnano l’adolescenza e, di conseguenza, il suo racconto cinematografico. E anche il suo allontanamento sarà dettato più dalla stanchezza e dall’insofferenza che da una seria presa di coscienza su quanto le è accaduto. Jacob Elordi, da par suo, non è così carismatico nei panni di Elvis da rubare la scena, da imporsi come protagonista del film a scapito della sua comprimaria femminile. La macchina da presa non è innamorata di lui, la regia lo relega ai margini dell’inquadratura, la fotografia lo mette in ombra, la colonna sonora non lo chiama mai in gioco direttamente. Il Re è finalmente senza corona.