L’ultimo film di uno dei più grandi maestri del cinema americano contemporaneo ha la purezza, l’essenzialità, del cinema muto pur essendo tutto basato sulla parola (quella manipolata, cesellata ai fini dell’arringa, del contro-interrogatorio, dell’esposizione davanti al giudice). Un Rashomon militare-giudiziario che, al netto delle convinzioni non propriamente “liberal”, si allinea meravigliosamente con tutto il cinema precedente di William Friedkin, basato sull’ambiguità e sull’impossibilità di dare giudizi definitivi («Tutti i film che ho fatto sono sulla sottile linea tra il bene e il male», è la citazione che apre questa sua ultima opera). Si può persino ipotizzare che il regista si sia immedesimato nel severissimo (fino al fanatismo) comandante Queeg (Kiefer Sutherland), accusato di essere stato incapace di far fronte alla tempesta che aveva travolto la sua nave, con l’ostinazione di mantenere una rotta che avrebbe messo in pericolo sia l’equipaggio che la nave stessa.

Per lo spettatore, schierarsi con il giovane tenente accusato di ammutinamento - Steve Maryk (Jake Lacy), che ha deciso di prendere il controllo della nave - è quasi un riflesso meccanico, proprio per l’antipatia istintiva che si deve alla figura tipica del comandante, quasi uno stereotipo di chi ama esercitare il potere abusando del proprio ruolo. Ma d’altronde anche di «Hurricane Billy» - come lo avevano battezzato una volta arrivato a Hollywood da Chicago e dopo aver vinto giovanissimo l’Oscar con Il braccio violento della legge - si è sempre raccontato del suo carattere duro, scontroso, di chi non voleva scendere a compromessi pur di tenere fede alla propria visione di cinema, ma di cui è stato svelato, attraverso le testimonianze dei tanti amici e colleghi che lo hanno commemorato in queste ultime settimane, un lato generoso e amabile, riscrivendo l’immaginario che era stato fino ad oggi delineato su di lui.

Alla fine è questo, togliendo di mezzo le implicazioni politiche, il messaggio ultimo di The Caine Mutiny Court-Martial: affermare l’indispensabilità di quelli meno accettabili, inizialmente respingenti, persino problematici, nel grande meccanismo della Storia, che si serve anche (e forse soprattutto) di quelli che non la passerebbero liscia se trascinati davanti ad un grande tribunale dell’inquisizione morale. Ed è infatti sul terreno della scienza - delle perizie psichiatriche, della sua salute mentale - che si gioca la sfida tra difesa e accusa nel film, come a voler suggerire che, se si prendesse in considerazione la morale come metro di giudizio, non ci potrebbero mai essere condanne inappellabili, solo differenti e opinabili considerazioni. È proprio per queste ragioni che un film di stampo classico, che generalmente prevederebbe catarsi, vittime e colpevoli, si fa palcoscenico per ambivalenze, finzioni, equivocità.

Non è la prima volta che Friedkin lavora in una stanza chiusa – L’Esorcista, Festa di compleanno del caro amico Harold, Bug – senza perdere tensione e dinamismo, che si confermano qui in una straordinaria precisione formale e in una direzione eccezionale degli attori in scena. Sutherland, inizialmente sicuro di sé, dell’immunità che il suo ruolo e l’esperienza decennale dovrebbero garantirgli, comincia a rivelarsi nervoso, perde il filo delle sue parole, si fissa su episodi privi di rilevanza che però mettono a nudo le sue debolezze e le sue ossessioni. L’accusa, a differenza che nella pièce originale, stavolta è una donna (Monica Raymund) che, nel solito gioco di capovolgimenti ironici caro a Friedkin, è una delle più ferree sostenitrici dello status quo, di quel comandante che il pubblico ha cominciato a detestare (se per ideologia o per cieca professionalità, il film non lo dirà mai).

L’aula del tribunale, pur nella sua sacralità, viene profanata fin dal primo momento, quando capiamo che alcuni dei protagonisti (tra i testimoni e nella difesa) stanno agendo contro le loro reali convinzioni: per dovere, per soddisfazione, per ripicca. Solo nel momento in cui il film si allontanerà, nella scena finale, dai luoghi della “giustizia”, si avrà la possibilità di conoscere davvero il pensiero di chi, fino a quel momento, abbiamo visto semplicemente recitare un copione.