È incredibile come anche in un film lontanissimo da quello che generalmente abbiamo imparato a definire “polanskiano”, emerga sempre, in ogni quadro, in ogni scelta di inquadratura, la mano fermissima di uno dei più grandi cineasti del secolo scorso, perfezionista e sempre in controllo di ogni aspetto delle opere che realizza. The Palace è infatti una commedia dozzinale, stanca e in alcuni casi becera, incastonata però in una cornice di lusso, che è da sempre quella che Roman Polanski garantisce ai suoi film con una messa in scena formidabile e una ferrea padronanza sulla macchina da presa, sulla scenografia, i costumi, le luci (tutti aspetti che cura personalmente, con i suoi collaboratori). In questo tour de force della decadenza e della vecchiaia decrepita ci guida il manager di un hotel-Titanic arroccato sulle Alpi svizzere (un ottimo Oliver Masucci), il quale, dovendo rispondere alle richieste più folli e capricciose dei suoi clienti, trascina lo spettatore senza sosta di camera in camera, di ambiente in ambiente, dalle cucine al caveau, facendoci percorrere tutto il Palazzo senza un attimo di tregua. I diversi ospiti, tuttavia, si incontrano raramente, impedendo al film di godere di quella interazione caotica che spesso agita questo tipo di commedie (modellate su quelle classiche viennesi): tutto è rigidamente cadenzato da un gioco di entrate e uscite di scena  come a teatro e i personaggi, ognuno chiuso nel proprio mondo di privilegi e autoreferenzialità, vivono il proprio soggiorno pressoché all’oscuro l’uno dell’altro.

Polanski mette in scena la fine del mondo, o quantomeno la fine di un mondo, che è anche il suo (non a caso è ambientato in Svizzera, nazione dalla quale non può uscire per le sue pendenze legali). Siamo nel 1999, l’anno in cui Yeltsin lascia la guida della Federazione Russa per passare il potere a un giovane che promette in televisione pace e prosperità per gli anni a seguire: Vladimir Putin (incredibile che il film sia stato scritto con Jerzy Skolimowski ed Ewa Piaskowska ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina e che i discorsi del futuro zar, gli unici non sceneggiati, siano tra le cose più amaramente ridicole del film). Siamo alla soglia di un nuovo millennio pieno di fiducia e speranza nel futuro, ma tutto ciò che vediamo è la decadenza, il marciume di una società ai suoi ultimi giri di ballo. Polanski mette in scena anche ciò che conosce personalmente, gli eccessi di un mondo che lui stesso ha frequentato (anche inevitabilmente) per diversi anni, quello dell’alta borghesia europea. E infatti – e forse questa è la cosa più sorprendente – si è sempre in grado di cogliere un certo grado di malinconia in queste maschere grottesche ed esagerate: la Marchesa di Fanny Ardant senza amici, quasi commovente nelle sue spudorate avance al giovane idraulico dell’hotel, o lo spietato Mickey Rourke (anche lui ovviamente devastato dalla chirurgia plastica), sempre inquieto e un po’ triste nei momenti in cui il suo improbabile accompagnatore lo lascia da solo.

Forse anche per questo il film mantiene un suo “pudore”, non cerca il disgusto del pubblico (come invece faceva il recente Triangle of Sadness), quasi temesse gli eccessi dei suoi impulsi. The Palace si ferma ai vecchi cliché, si fa copia sbiadita e volutamente tenue di un film potenzialmente molto più scorretto e sferzante. Anche in questo sta, forse, a volerla trovare, la fine di un mo(n)do di fare cinema che appartiene al secolo scorso: The Palace, infatti, è immaginato, scritto e strutturato come si faceva negli anni ‘60, riprendendo anche i tòpoi più demenziali di quel modo di intendere la commedia (la presenza in chiave comica degli animali). Come i professionali e instancabili lavoratori dell’hotel (che contengono il proprio disprezzo nei confronti delle persone che si trovano a dover gestire), Polanski si mette al servizio di questo circo di ricchezze, mediocrità e volgarità. Non si fa trascinare  nel gioco al massacro, ma si limita ad annotare le loro nefandezze. Si mette dal lato della “working class” non tanto alimentando lo scherno verso i ricchi, già condannati dal loro terribile aspetto esteriore, in contrasto con l’ambiente in cui si muovono, ma con la capacità di servire al meglio – con tutti i mezzi della messa in scena, come solo lui sa fare – quei personaggi così brutti e, nella maggior parte dei casi, così poco interessanti.