Ferrari, nel nuovo film di Michael Mann, non è tanto il nome della celebre scuderia di auto da corsa, quanto il cognome di chi l’ha fondata e l’eredità che quel cognome inevitabilmente si trascina con sé, influenzando le relazioni con gli altri e cambiando la percezione di ciò che si dice e si fa. È attorno ad esso che ruota una delle principali sottotrame del film, quella relativa al figlio non ancora riconosciuto avuto durante la guerra (che merita o non merita, per il suo stesso bene, quel pesante cognome?), ed è ciò che effettivamente determina tutte le scelte, anche quelle “industriali”, di un’azienda a conduzione famigliare in cui le dinamiche intime e personali sono strettamente e pericolosamente legate a quelle pubbliche. È qui che Mann cerca la sua storia, accennando dettagli biografici che spiegano il desiderio inappagato di riscatto, le pretese rigorose di vittoria che Ferrari chiede ai suoi piloti.

Non è perciò un film di corse, quello di Mann, cosa che potrebbe scontentare chi si aspettava un racconto pieno d’adrenalina e benzina dal regista di Collateral e Heat, ma un dramma famigliare che dice molto su come il modo di vivere e di intendere le relazioni umane nell’Italia degli anni Cinquanta abbia contributo in maniera cruciale ai successi (e ai fallimenti) della sua casa automobilistica più celebre. Quindi, di riflesso, di tutta una certa classe imprenditoriale del nord che ha trovato in quegli anni il momento più florido per la propria attività. Gli anni in cui l’Italia si illude nel boom economico, con la tv che arriva e annulla definitivamente il confine tra pubblico e privato, si comincia ad interessare più ai sogni da rotocalco dei piloti che alle loro performance su strada, cambiando geneticamente anche il ruolo dell’imprenditore, che da quel momento è chiamato costantemente a dar conto agli altri delle proprie scelte e strategie.

Adam Driver, alto, dinoccolato, torna a lavorare di sottrazione e restituisce un Enzo Ferrari austero e serafico, capace di prendere decisioni immediate senza proferire parola, sempre distante rispetto a ciò che avviene ma attento, concentrato sulle cose, proprio come vorrebbe che fossero i suoi piloti. Ad animarlo c’è però un dolore che non trova sollievo: innanzitutto quello per suo figlio, morto giovanissimo, e poi quello per due suoi amici deceduti in un incidente a bordo di una delle vetture di sua creazione. Il triangolo amoroso con la moglie (Penélope Cruz) e l’amante (Shailene Woodley) occupa una porzione abbondante del film, anche in questo caso per dimostrare come il modo – atipico per quegli anni – di gestire infedeltà e crisi coniugali abbia poi avuto un effetto concreto sul futuro della stessa Ferrari (che la moglie avrebbe potuto far smettere di esistere con un colpo di spugna, se solo avesse voluto).

Il film di Mann, pur nel suo incedere mesto e nella sua totale adesione alla tradizione del biopic cinematografico più classico, ha infatti almeno il merito di far emergere – in contrapposizione alla figura monolitica e patriarcale di Ferrari – i suoi personaggi femminili, tutti caratterizzati da un’estrema complessità d’animo e in grado di dosare perfettamente razionalità, amore e risentimento per raggiungere i propri obiettivi, proteggere i propri cari e allo stesso tempo salvaguardare il nome “Ferrari”, letteralmente e commercialmente inteso, che sentono come proprio. La dimensione umana del film si fonda principalmente sulla possibilità di accettare e prevedere l’errore, sulla fallibilità di chi abbassa per un attimo la soglia dell’attenzione o cede a tentazioni e lusinghe: tanto nella sfera privata, quanto in quella pubblica e sportiva.

Si è umani, anche se si vorrebbe essere macchine, meccanismi di assoluta precisione ingegneristica (la cui reale esistenza il film mette continuamente in discussione attraverso una lunga serie di imprevisti che sfociano in tragedie). Il capitalismo industriale italiano, tutto basato sulle relazioni amicali, amorose, di sangue, viene così raccontato anche nella sua dimensione più dimessa, elaborando il mito della scuderia a cominciare dalla sua reputazione inizialmente macchiata da incidenti, errori grossolani, cattiva gestione del team. Le macchina riprese da Michael Mann sono veicoli instabili, difficilmente gestibili, che non scivolano piacevolmente sull’asfalto ma lo graffiano, lo scalfiscono con durezza. Non c’è nulla della sensualità cromata e luccicante di tanti altri film di corse, ma si percepisce sempre il peso, la difficoltà, la precarietà delle vetture che si guidano. Ed è in quel momento che si capisce davvero dove vuole andare a parare il film, raccontando dell’ossessione per ciò che non si può davvero controllare, che rischia di sfuggire dalle mani nel tempo - rapidissimo - di un tornante. Nella vita, così come sulla pista.