Questa prima metà di Dead Reckoning, penultimo episodio di una saga che si concluderà nell’estate del 2024, non assomiglia affatto a un passaggio preliminare e non si astiene in alcun modo dal farsi atto conclusivo, riassumendo quasi trent’anni di Mission: Impossible (e quindi di cinema d’azione in generale) alla ricerca della sua quintessenza. Nel suo essere così ostinatamente vintage, in un prologo depalmiano che riposiziona le lancette dell’orologio alla fine degli anni Novanta, compie un’operazione simile (ma migliore) a quella di Indiana Jones e Il quadrante del destino, ponendosi orgogliosamente fuori dal tempo, anacronistico nella sua ostentata classicità. Romantica è l’idea, per celebrare la fine della saga (ma lo sarà davvero?), di tornare alle origini, citando le atmosfere del primo capitolo, con il duello sul ponte (là era Praga, qui Venezia), poi l’assalto al treno e presentando il sorprendente come-back, a 27 anni di distanza, del direttore dell’IMF Eugene Kittridge (Henry Czerny, assente nei cinque capitoli di mezzo). Il film, nonostante prosegua nel rimodellare il suo eroe su modelli sempre meno cool e desiderabili, insiste nel mantenere il sostanziale anonimato, l’unidimensionalità dell’agente Hunt, tutt’uno con le avventure keatoniane di cui è protagonista, probabilmente ancora inconsapevole di essere alle ultime battute della sua carriera cinematografica. Gli indizi della sua imminente fine si possono cogliere nei flash-back dei capitoli precedenti, nella vaporizzazione delle questioni narrative, nell’avanzare di un nemico immateriale dalle intenzioni insondabili, nella progressiva spersonalizzazione dei personaggi secondari e nel divenire archetipico (decisamente più del solito) del racconto.

McQuarrie sembra aver assimilato tutte le ere di una saga tra le più eterogenee degli ultimi tre decenni, sublimando stili differenti e differenti concezioni di azione, tecnologia, sentimentalismo. Dead Reckoning, come già detto, richiama esplicitamente il barocco depalmiano, la sua sfilata di maschere, le inquadrature eccentriche, gli accenti da thriller hitchcockiano, ma allo stesso tempo mette la new-entry Hayley Atwell in una posizione molto simile a quella di Thandiwe Newton in M:I II, insegue Tom Cruise nella sua corsa a perdifiato come nel terzo episodio a Shangai, amplifica - fino a costruirci sopra una intera sequenza - il male-bonding tra comprimari e amici introdotto con Ghost Protocol. Il suo stesso mondo si rifugia nel passato, quando l’intelligence americana deve, di fronte alla minaccia dell’intelligenza artificiale, andare forzatamente offline, mettere nero su bianco i suoi innumerevoli dati. Fare una copia di back-up, insomma. Attraversando il lusso di James Bond (la Venezia di Casino Royale) e dialogando persino con Hercule Poirot (l’Orient Express), McQuarrie non ha eguali nel sottoporre questi elementi a forze che li comprendono e li superano (il treno luxury proiettato nel vuoto fluttua per alcuni secondi in una gravità compensata dalla sua caduta, tra Agatha Christie e Christopher Nolan) e nel fare di Mission: Impossible un punto di congiunzione unico, in bilico tra un futurismo smaterializzato e la meccanica primitiva del grande spettacolo hollywoodiano fatto di pistoni e acciaio. Uno spettacolo - The Greatest Show on Earth - che rimane sempre e comunque una questione di treni e velocità. McQuarrie - e, come lui, recentemente James Mangold - l’ha capito bene.