C’è davvero da essere contenti se un’autrice stimata e talentuosa come Greta Gerwig debba, per realizzare un film ad alto budget e con un grosso studio alle spalle, necessariamente lavorare ad un progetto che ruota attorno ad un prodotto di massa e quindi inestricabilmente legato ai suoi avvilenti meccanismi di marketing? È una domanda a cui non è così facile rispondere, considerando che in teoria no, non è questo il mondo ideale in cui vorremmo vivere, ma che sì, questo è il mondo reale in cui effettivamente viviamo. Un mondo in cui la logica del mercato, la religione della commerciabilità del prodotto, schiaccia ed elimina qualsiasi velleità artistica nel momento in cui si arriva a determinati livelli produttivi. E questo vale specialmente per le registe donne (laddove invece gli uomini hanno, anche in questo ambito, margini di manovra più ampi). Barbie, film imperfetto, indeciso, scostante, sembra riflettere proprio l’impossibilità di risolvere questo dilemma, mettendo in scena le problematicità congenite di un sistema con cui negoziare è sempre più frustrante, in cui è quasi impossibile non cadere in contraddizione mentre si cerca di affermare i propri diritti. Così, il film di Gerwig (e Baumbach) passa dalla ferocia del manifesto Scum di Valerie Solanas (in cui si chiedeva l’eliminazione del sistema monetario, che infatti a Barbieland non esiste, come passaggio necessario per la conseguente eliminazione del sesso maschile, che grazie a quel sistema vive e prospera), alla timidezza delle riconciliazioni all’acqua di rose, fino ad approdare, con spericolate capriole, addirittura alla critica di un certo tipo di femminismo corporativo.

Rimanere coerenti può essere sfinente ed è forse proprio con questa idea in mente che bisogna approcciarsi a Barbie: blockbuster che gira e rigira su se stesso, apre sottotrame che non riesce a chiudere, rende sempre meno comprensibile la sua visione rispetto alle cose di cui vuole parlare. Il film non sa mai spiegarsi, indeciso tra generi e toni da adottare, scritto da bravi autori che però non sanno sempre gestire al meglio una grandezza maggiore di quella del mumblecore, in cui l’umorismo (a volte ottimo) viene soffocato dalla programmaticità dell’intento politico, a sua volta annacquato dal senso di colpa che di tanto in tanto si manifesta nei confronti del brand per cui si sta lavorando (si può fare femminismo in un contesto ultra-capitalistico?). Il consiglio d’amministrazione di soli uomini che non si gode il successo commerciale del Kendom, ma vuole a tutti i costi salvare la bambola originale - utopia femminista circoscritta agli scaffali degli ipermercati - è ad esempio una delle tante buonissime idee che vengono solamente suggerite e mai approfondite. Questo costante senso di irresolutezza viene in qualche modo declinato anche attraverso una rilettura tutt’altro che monolitica dell’icona Barbie, risultato finale di un percorso, quello di Mattel, fatto di vicoli ciechi, decisioni sbagliate, scelte di mercato fallimentari e modelli inadeguati (quando non proprio retrogradi e offensivi). Nonostante tutto questo, e prendendo per buona la gentile presa in giro del committente, non si può non constatare come Barbie, il film, stia già producendo utili per l’azienda. Una bambola da cinquanta dollari che assomiglia a Margot Robbie, presentata a giugno, è già andata sold-out, così come la replica in miniatura della sua Corvette rosa (prezzo di listino: settantacinque dollari). Le collaborazioni con altri, prestigiosi, marchi (alcuni dei quali ben visibili su schermo) hanno generato un eccesso di prodotti a tema Barbie: dalle candele alle borse, passando per gli yogurt.

Il giorno dopo l’uscita del trailer, le ricerche su Google per tingersi i capelli come Barbie sono triplicate. Articoli su “dove acquistare l’esatto autoabbronzante” usato sul set del film sono spuntati nei soliti posti – Allure, Cosmo – ma anche su siti più autorevoli come l’Independent e il Guardian. Insomma, il Barbiecore è diventato immediatamente il look dell’estate. Esiste una piastra per capelli ufficiale del film, così come un arricciacapelli e uno smalto brandizzato. Le collaborazioni sono innumerevoli: Barbie x Moon Whitening Toothpaste, Barbie x Truly Skincare Brightening Serum e Barbie x NYX makeup collection. “Gloss your lips to perfection”, si legge nella pubblicità del lucidalabbra. Se il film vorrebbe parlare direttamente alle donne dell’impossibilità della perfezione, il merchandising ad esso associato parla direttamente alle donne dell’importanza di provarci comunque. Una contraddizione che si rivela in tutta la sua ridicola ipocrisia quando si parla di cellulite, centrale nella sceneggiatura del film. È la cellulite a spingere il viaggio della protagonista verso il mondo reale: simbolo di quella “imperfezione” che bisogna imparare ad accettare, a meno che non si voglia comprare, per “soli 39 dollari”, la lozione ufficiale anticellulite di Barbie, che promette di “rimpolpare le pieghe e stimolare la produzione di collagene”. La bambola di Mattel ha insegnato alle ragazze che potevano essere tutto ciò che volevano essere (astronauta! donna d’affari! Presidente degli Stati Uniti!) ma sempre aderendo ad uno standard minimo di bellezza. In tutto questo marasma, è il mezzo cinematografico, alla fine, ad uscirne in qualche modo depotenziato, annullato nello stile visivo codificato dalle grandi case del lusso e della moda, indistinguibile da quello delle pubblicità e dei “fashion film”.