Il primo film “occidentale” (per la precisione, europeo) di Hirokazu Kore’eda sembra essere scritto e diretto da Olivier Assayas. La vérité somiglia molto ad una delle commedie verbose del regista francese, ambientate nelle ville dell’alta borghesia e popolate generalmente da personaggi tutti riconducibili al mondo dell’arte (qui Juliette Binoche è una sceneggiatrice, Catherine Deneuve un’attrice e Ethan Hawke un attore di polizieschi di serie B come la stessa Binoche in Doubles Vies di Assayas) in conflitto per opposti egocentrismi. Proprio come in Doubles Vies, anche nel film di Kore’eda c’è un libro di “memorie” (false) che crea scompiglio e ci sono amici (o amanti) indispettiti per essere stati rimossi dalla narrazione o per essere stati descritti in maniera poco carina. Kore’eda (che il film lo ha anche scritto) sembra voler riflettere con La vérité sul mezzo cinematografico, scherzando su di esso e facendo scherzare i propri personaggi (proprio come in Assayas ci sono freddure sull’uso eccessivo di effetti digitali o di riprese mosse e giochi metacinematografici sul passato, quello reale, delle attrici). Eppure è lo scopo ad essere diverso: Kore’eda non cerca di svelare costantemente la finzione del suo cinema perché in quella finzione crede fermamente, arrivando forse a preferirla alla realtà stessa (“la quotidianità non conta”, afferma il personaggio di Fabienne).

Quello di Kore’eda è infatti un elogio della finzione. La luce si fa caratterizzante nelle scene di finzione (quelle ambientate sul set del film che il personaggio della Deneuve sta girando, una specie di versione intimista di Interstellar) e piatta in quelle “reali”. I personaggi utilizzano i trucchi (di recitazione o di scrittura) che hanno imparato lavorando a prodotti di finzione per risolvere faccende personali e sfruttano ogni cosa che accade loro nella realtà anche nella finzione del loro lavoro (per migliorare una scena, per scrivere un nuovo copione). Sarà proprio guardando le scene di quel film nel film a cui stanno collaborando, che i personaggi riusciranno finalmente a trovare il coraggio di esternare sentimenti che prima riuscivano a tirare fuori solo in un contesto di finzione e mai nella realtà delle loro relazioni. Come ne Il Disprezzo di Godard, ne La vérité ci sono due tipi di incomunicabilità, una causata dalla difficoltà di capirsi (lingue differenti) e una causata dalla difficoltà di comprendersi (modi di guardare il mondo differenti).

Se Assayas gode nel massacrare i suoi personaggi, nel descriverli attraverso le loro piccolezze e le loro ridicole nefandezze, lo sguardo di Kore’eda è più empatico e tenero. Il senso di vuoto, costantemente comunicato da ciò che i personaggi dicono e fanno, viene amplificato dagli spazi (vuoti e artificiosi) nei quali questi si muovono. Pur adottando un tono da commedia, Kore’eda cerca di trasmettere in ogni momento la condizione tragica dei suoi protagonisti. Se i suoi precedenti film cercavano di far aderire spontaneamente lo spettatore al punto di vista di personaggi che agivano spesso al di fuori della sfera del buonsenso (o addirittura della legalità), La vérité cerca invece di far cogliere a chi guarda la tristezza che li muove, chiedendo allo spettatore di compiere lo sforzo di non deriderli.

Come già in Un affare di famiglia, la luce scava sempre più i volti degli attori con il passare dei minuti. Quei personaggi così bidimensionali, dalle azioni sempre prevedibili perché riconducibili a stereotipi già conosciuti, cominciano a rivelare una loro complessità sotto lo stimolo della finzione che sono chiamati ad alimentare (fin dall’inizio più complessa della realtà). La finzione, quindi il cinema, non è banalmente elemento terapeutico, mezzo attraverso il quale far emergere i rimossi del passato, ma una guida per decodificare il reale. Kore’eda spesso propone nel suo cinema vicende facilmente deprecabili se analizzate superficialmente, ma le mette in scena con una benevolenza ed una complicità tali da farci sollevare dei dubbi sulle nostre condanne preventive. Si tratta di una sofisticazione cinematografica (quella di contraddire attraverso le immagini e la regia ciò che è scritto in sceneggiatura, ovvero l’esposizione asettica della trama) che lo stesso regista consiglia di adottare anche nella vita reale.

Il processo di mimesi, apparentemente perfetto, compiuto da Kore’eda finisce nel momento in cui è lui stesso a decidere di svelarsi attraverso una sola immagine, quella di una famiglia asiatica seduta al tavolo di un ristorante. Come già avveniva in Ritratto di famiglia con tempesta, in cui il regista nipponico costruiva un intero film per permettere allo spettatore di guardare l’immagine che dava il nome all’opera con lo stesso sguardo attraverso il quale la guardava lui, così ne La vérité è solo nel momento in cui Kore’eda mostra quella famiglia così numerosa, riunita nella convivialità di un pranzo, che capiamo il senso di tutta l’operazione e la decisione di Kore’eda di “scomparire”, non imponendo la sua ormai riconoscibile cifra stilistica. Lo scarto necessario tra la filmografia passata del regista (sintetizzata in quella immagine al ristorante) e questo debutto occidentale (sintetizzato nell’immagine di una solitaria Catherine Deneuve qualche tavolo più in là).