Le immagini in ogni film di Polanski hanno un ruolo cruciale nella narrazione, risolvono snodi di trama o sono indispensabili per capire ciò che avviene su schermo (ogni loro minima modificazione può suggerire uno sviluppo improvviso o comunicare una evoluzione che non si coglierebbe seguendo superficialmente lo svolgersi della trama). Il suo nuovo J’Accuse è infatti un’indagine condotta da uno spettatore. Lo dice esplicitamente anche lo stesso Georges Picquart, il militare che svelò l’innocenza del capitano Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento sulla base di prove false: “Sono qui per osservare, non per intervenire”. In quelle parole c’è tutto il senso del film di Polanski. Picquart non è un agente sul campo (il lavoro sporco lo fanno altri per conto suo), ma un osservatore. Solo attraverso lo sguardo si può scoprire la verità e solo negando la visione di qualcosa (un documento manomesso, ad esempio) si è in grado di nasconderla. L’occhio di Jean Dujardin (come quello dello spettatore) è quindi l’unico strumento attraverso il quale scoprire le nefandezze di un sistema (politico e militare) sifilitico.

Così Polanski utilizza lo stesso mezzo filmico per affermare la verità (la classica didascalia iniziale, “i fatti narrati sono veri”, assume qui un valore enorme), lavorando con le immagini su numerosi piani diversi: quello della narrazione vera e propria (ciò che vediamo accadere a Picquart), quello della narrazione che Polanski sceglie di svelare allo spettatore (i ricordi di Picquart, che compaiono e scompaiono attraverso dissolvenze, frammenti da ricomporre come quelli delle lettere che giungono nel suo ufficio) e quello della finzione, ovvero le immagini proiettate dai personaggi sullo schermo quando leggono qualcosa. Il cinema di Polanski si basa sulla costante produzione di immagini. Ogni gesto compiuto dai personaggi (immagini di primo livello) stimola un ricordo (immagini di secondo livello) e ogni parola genera una sua proiezione audiovisiva (immagini di terzo livello). Non è un caso, quindi, se lo stesso Polanski decida di comparire nel film per un brevissimo cameo, anche lui da spettatore (assistendo ad una esecuzione musicale).

La supremazia delle immagini sulla narrazione, da sempre teorizzata da Polanski, raggiunge con J’Accuse il suo apice massimo, perché la narrazione stessa non sarebbe in grado di proseguire senza quelle immagini che la fanno andare avanti. Le immagini sono prove indispensabili, le uniche in grado di rendere vere (quindi dimostrabili) le accuse che vengono mosse e che per questo Polanski fornisce costantemente a chi guarda. La sola giuria da convincere, per lui, è la platea dei suoi spettatori, non quella dei tribunali francesi nei quali si svolge il processo Dreyfus e che la regia mette in scena inquadrandoli frontalmente, come a creare una immagine speculare della sala cinematografica nella quale viene proiettato il film e nella quale siede chi sta osservando il processo.

Persino Georges Picquart, appena promosso, sembrerà scegliere i suoi collaboratori più fidati sulla base di un “giudizio estetico”, affidandosi esclusivamente al suo sguardo per decidere a chi dare confidenza e a chi no (quando arriva nella sezione di cui è divenuto capo, non conosce ancora nessuno, ma è sufficiente un giro perlustrativo per capire cosa funziona e cosa no). E anche il famoso editoriale scritto da Émile Zola in forma di lettera aperta sul giornale socialista L’Aurore, nel film di Polanski è reso attraverso una lunga sequenza di immagini. Tutto passa attraverso il mezzo audiovisivo ed è solo attraverso questo che è possibile rivelare ciò che ci viene negato di conoscere (quindi di guardare). Ogni cosa nel cinema di Polanski nasconde qualcosa da guardare, può essere giustificata tramite un’immagine ed è considerabile “reale” solo se raffigurabile. Al cinema, come in un processo, una testimonianza può essere giudicata davvero attendibile solo se corredata da prove visive (e visibili). Per questo motivo il cinema, per Polanski, è il solo mezzo attraverso il quale lanciare un’accusa credibile e non confutabile.