Questa volta l’influenza di Jeff Koons in Across The Spider-Verse, solo immaginabile e ipotizzabile nel primo film, viene finalmente esplicitata, rendendo evidente il debito dei suoi autori (Phil Lord e Christopher Miller) rispetto a quell’idea di esplorare il significato delle immagini e delle icone in un’epoca satura di media e così la conseguente crisi della rappresentazione, scandagliata attraverso un linguaggio visivo che dialoga sia con la pubblicità che con l’arte più elevata, che sfida le barriere tra cultura popolare ed élite collocando immagini familiari in composizioni astratte e fuori contesto. Già con The Lego Movie, i due sceneggiatori avevano utilizzato il brand di giocattoli più famoso al mondo e le molteplici proprietà intellettuali ad esso associate per demolire il moderno concetto di copyright, da sempre osteggiato anche dallo stesso Koons, che più volte in tribunale ha cercato di giustificare l’arbitraria appropriazione di immagini e personaggi circostanziando la pratica in una secolare tradizione artistica di commento del luogo comune (di cui quelle immagini e quei personaggi sono semplicemente emanazione). L’atteggiamento eclettico di Koons ha però la sua fonte ultima nella necessità di stabilire una regola di accettazione generale (acceptance of everything), di superare ogni giudizio critico sul bello e di cercare la perfezione in ogni cosa. L’arte assume così un carattere liberatorio, perché consente all’uomo di superare le proprie ansie e di accettare le proprie anomalie e le proprie mancanze, non in senso catartico aristotelico (cioè confrontando il pubblico con le mostruosità del mondo), bensì in senso platonico, confrontandolo con una straordinaria varietà di archetipi positivi che lo circondano. Lord e Miller, allo stesso modo, prendono il mito del supereroe, nelle sue svariate declinazioni archetipiche, per rifrangerlo continuamente in un immenso gioco di specchi, rimandi e riverberi tra multiversi (e metaversi). Attraverso l’utilizzo di stratagemmi visivi che provengono dal mondo della tipografia e non da quello del cinema (seminale è stato, nel primo film, l’uso dell’aberrazione cromatica per indicare la profondità di campo), gli animatori passano in rassegna tantissime tecniche di stampa (con le loro inevitabili imperfezioni) per poi inventarsi un loro equivalente cinematografico (un’intuizione ripresa da Cartoon Saloon con Wolfwalkers, che tentava di riprodurre la stampa con blocchi di legno con cui venivano realizzati i pamphlet anti-irlandesi all’epoca di Cromwell, e persino dalla Pixar in Luca, ispirato alla stampa ukiyo-e sviluppatasi durante il periodo Edo). Di Koons, inoltre, l’animazione di questo secondo film richiama la dialettica tra controllo e caos sempre presente nelle opere dell’artista statunitense, che torna indietro fino alla cultura figurativa barocca di Bernini: il drappeggio drammatico ed espressionista dell’Estasi di santa Teresa d’Avila o ancora il pelo del cane a tre teste del Ratto di Proserpina, esempi in cui il controllo totale sulla scultura è in tensione con il movimento vorticoso del materiale, che sembra prendere il sopravvento sulla volontà dell’autore, imponendo autonomamente una propria direzione e una propria traiettoria.
In linea con quella lezione, il potere travolgente di Across The Spider-Verse rimane, anche in questo caso, l’eterogeneità sfrigolante della sua animazione, la difficoltà nel rimanere nei contorni indicati, l’energia elettrizzante che riesce a trasmettere nel corpo filmico. Questo secondo capitolo della trilogia animata dedicata all’Uomo Ragno è infatti, ancora più del primo, condizionato dal tratto del disegno e non tanto dalla sceneggiatura, dal suo uso del colore (e della sua assenza, con tavole che ricordano gli scarabocchi monocromatici di Stanley Donwood), dalla composizione dell’immagine e dalla consistenza dei diversi materiali. È una scelta che emerge chiarissima fin dai primi minuti ambientati sulla Terra-65 di Gwen Stacy, caratterizzata da uno stile acquerellato che segue, nella saturazione più o meno accentuata e nella precisione mutevole del tratto, la narrazione e le emozioni della ragazza, prima malinconica e poi pronta a sbocciare in una pura sinestesia cinematografica in cui lo stile grafico si fa tutt’uno con l’andamento emotivo del racconto. Il viaggio multimediale nella storia dell’illustrazione e della pittura (da Leonardo da Vinci alle opere della Collezione Peggy Guggenheim) accompagna e non sovrasta, amplifica e non inghiotte la fragilità di una vastissima galleria di genitori inadatti e confusi, adolescenti impreparati al mondo (o ai mondi), eroi che non riescono a sostenere il peso del loro compito, antagonisti che non hanno idea di come gestire il vuoto con cui devono avere a che fare. L’horror vacui che si riempie di colori, forme, arte.
Lord e Miller riservano a Spider-Man lo stesso trattamento che la pop-art di Warhol e Lichtenstein (e poi successivamente lo stesso Koons) riservarono a suo tempo al personaggio di Popeye: simbolo del movimento low-brow (e non è un caso che in Across The Spider-Verse compaia una versione “punk” del personaggio, espressione di quella ribellione ai conformismi della società dello spettacolo che i due sceneggiatori agitano già da Piovono Polpette) ma anche esempio di trasformazione ed “empowerment”. Il motto stesso di Popeye (I yam what I yam and that’s all that I yam) segnala una contraddizione intrinseca: quella tra l’accettazione di sé e la volontà di superarsi e andare oltre. Che è poi il conflitto della cultura americana in generale, che oscilla tra l’insistenza quasi belligerante del non aver bisogno di imparare dagli altri o cambiare, e il desiderio di auto-miglioramento e mobilità sociale. Non è difficile notare che tutte le varie versioni dell’Uomo Ragno, in questo Across The Spider-Verse, siano ossessionate dalla propria storia, ribadiscano alla prima occasione utile di essere “gli unici Spider-Man” del loro universo di riferimento. Tengono molto alla loro identità e sono mossi principalmente dalla volontà di salvare la propria storia e il proprio canone dall’irrilevanza e dall’oblio. Nonostante ciò, tutte le figure sono distinte da una trasformazione fisica – piuttosto che psicologica – di velocità, abilità, dimensioni, costumi e colorazioni. Cioè, sembrano cambiare dall’esterno verso l’interno, spesso in risposta a qualche evento materiale (buttare giù una lattina di spinaci per Popeye, esposizione alla radioattività per Spider-Man). E così l’intero film, stavolta, sembra affermare il predominio della forma sulla storia, un’idea di cinefumetto in cui è il tratto a determinare l’andamento della narrazione, le emozioni dei personaggi e persino il funzionamento dei loro poteri (lo stesso villain sembra concepito a partire dalle possibilità di animazione e di montaggio che consente).
Ovviamente Across The Spider-Verse, come il precedente film e come tutta l’animazione americana da Toy Story in avanti, non rinuncia al suo carattere auto-riflessivo, a raccontare da dentro il funzionamento dei grandi franchise moderni in questo particolare momento dell’industria cinematografica. Nel farlo, Lord e Miller finiscono persino per ribaltare l’unica idea che sembrava accettata in Into The Spider-Verse, quella che sosteneva che a contare non fosse il sesso, la provenienza o addirittura la razza di un eroe, ma la morale di fondo della sua storia, i passaggi irrinunciabili che ne segnano la personalità e la psicologia. Con questo secondo capitolo, la coppia di autori rinuncia persino a questo, scardinando i pochissimi punti fissi rimasti, arrivando a sostenere che non ci sono regole: che si può, anzi, si deve rompere tutto e cambiare tutto ogni volta. I personaggi lamentano il giogo di un “algoritmo” che prevede la ripetizione infinita della stessa storia, esattamente come gli sceneggiatori lamentano il fatto di dover obbedire alle indicazioni degli algoritmi delle piattaforme, che in base al comportamento degli utenti indicano come debbano essere scritti i film per avere successo. L’unico rimedio è la totale libertà creativa, la sovversione di quelle regole che gli studios esigono per non uscire fuori dal canone, per non snaturare l’identità delle loro produzioni (si pensi a ciò che succede ad ogni nuovo film di Star Wars) e così garantire ai fan la possibilità di trovarsi sempre a loro agio in quelle storie. Questioni forse troppo complicate per chi non ha confidenza con queste dinamiche, ma messe in scena attraverso un impianto visivo di cui si può godere anche solo sensorialmente, senza la necessità di ulteriori elucubrazioni intellettuali. Un impianto visivo che vibra nella vitale contrapposizione tra cartaceo e digitale, quindi tra materico e incorporeo, tra permanenza e impermanenza, tra manualità e automatismo. Che rivendica nella riappropriazione del tratto bidimensionale, nell’imperfezione tipografica, un maggiore potere produttivo, una maggiore centralità degli autori.
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