Dopo The French Dispatch, estremizzazione del gesto disumanizzante di Wes Anderson, in cui si aboliva definitivamente la sceneggiatura e si rimediava alla sua mancanza con una foga additiva di rappresentazioni armoniche e posticce, adesso Asteroid City si fa elaborazione intellettuale (più o meno consapevole) di quella deriva, riflessione sull’horror vacui assunto a cifra poetica, mettendo direttamente in scena l’esperienza del vuoto, della vacuità, in una città cratere che inghiotte i suoi personaggi e li costringe forzatamente a relazionarsi tra loro. Gli attori, ridotti a comparse di lusso nel precedente film, tornano protagonisti, non più suppellettili tutt’uno col décor e con la scenografia, ma figure in grado di stagliarsi sul fondale per provare, dolorosamente e faticosamente, ad imporsi nuovamente sul resto. L’ostentata ripetitività della forma costruita che ridimensionava lo spazio, rimodulando e definendo il vuoto per compressione, per riduzione, per annullamento, viene qui sostituita dall’amplificazione del niente, da un deserto che si allontana in profondità e che per contrapposizione rende evidente la pochezza e la limitatezza di chi rimane in primo piano, confinato in un isolamento prima auto-imposto e poi imposto da altri, che rende difficile, se non impossibile, la comunicazione, la reciprocità del dialogo oltre il solipsismo. Se il movimento, la rapidità, l’accumulazione di necessità repentine, conducevano paradossalmente alla congestione e alla paralisi, stavolta la macchina da presa si sposta solo lievemente sul piano orizzontale, trasformando il cinemascope in una “comic strip” iper-realista da leggere andando avanti e indietro. Wes Anderson costringe se stesso a lavorare con un ambiente talmente vasto e inafferrabile da non poter essere miniaturizzato con le sue tradizionali soluzioni visive, scegliendo così di non aggredire lo spazio vuoto ma di accettarlo nell’inquadratura.

Anche il classico impianto narrativo, fatto di storie al quadrato e al cubo, viene qui messo in discussione dal suo attore feticcio Jason Schwartzman, che in uno dei tanti momenti metacinematografici chiede disperato al regista della rappresentazione di cosa parla realmente la pièce di cui è protagonista. Perché gli eventi raccontati in “Asteroid City”, apprendiamo, sono quelli di uno spettacolo teatrale scritto da Conrad Earp (Edward Norton) e poi successivamente trasposto per la televisione da Schubert Green (Adrien Brody), le cui fatiche creative ci vengono descritte da un narratore esterno (Bryan Cranston) e mostrate da dentro e da fuori attraverso diversi formati. Nel collocare al centro del racconto proprio lo storytelling, il lavoro del narratore, Anderson mette stavolta in stringente relazione la crisi creativa di un finto drammaturgo con la sua condizione di regista vittima delle proprie ossessioni, a suo agio solo nella comunità fittizia di attori che ad ogni film raduna in grande quantità e che stavolta diventa società, immaginario cinematografico di un Paese intero. Il momento chiave, ovvero l’arrivo di un’astronave aliena, si svincola così da qualsiasi soggettività individuale (come invece avviene in alcune delle scene più iconiche della filmografia andersoniana, come quella alla stazione degli autobus ne I Tenenbaum o la carrellata laterale lungo il fiume al culmine de Il treno per il Darjeeling). Non è una questione privata, ma collettiva, che restituisce la dialettica tra l’imprevedibilità del mondo e il nostro tentativo, nonostante tutto, di dargli un senso con qualsiasi mezzo a nostra disposizione (che sia una vecchia macchina fotografica o una cinepresa). Negando persino la possibilità di un punto di vista autonomo e critico ai suoi personaggi, Anderson ribalta la prospettiva, assumendo lo sguardo di un solitario e timidissimo alieno, il cui arrivo costringe tutti quanti a riorientare le coordinate del proprio microcosmo (esteriore ma soprattutto interiore). Degli occhi estranei, alieni appunto, utili a giudicare impietosamente un mondo sprofondato in un buco nel terreno, che alza la testa verso l’alto nella speranza di un’imminente e provvidenziale ascensione.