Ancora una volta il senso di tutto il cinema di Ken Loach sta nell’utilizzo delle dissolvenze a nero. Quelle dissolvenze a nero che in Io, Daniel Blake venivano utilizzate dal regista come dimostrazione di pietà nei confronti del protagonista, di fatto impedendo allo spettatore di indugiare troppo sulla sua sofferenza, con il rischio di provare non più compassione ma commiserazione, e che invece in Sorry We Missed You arrivavano quando tutto ciò che c’era da vedere era già stato visto, inghiottendo i personaggi dai margini dell’inquadratura nel buio risolutivo di una giornata che si chiudeva per ricominciare uguale a sé stessa. Adesso, in The Old Oak, lo schermo nero serve da strumento di riflessione, spazio in cui nulla accade che consente allo spettatore di ricomporre i pensieri su ciò che ha appena visto, e allo stesso tempo facilita, per ellissi, la “ricomposizione” tra comunità apparentemente in contrasto: quella dei rifugiati siriani, arrivati nella periferia di Durham, e quella dei cittadini inglesi poverissimi, che individuano negli stranieri un nuovo capro espiatorio per la loro condizione di solitudine e svantaggio. Al riemergere dell’immagine dal buio, troviamo - forse in controtendenza rispetto agli ultimi pessimistici film di Loach - una collettività più coesa, inclusiva, numerosa. Chi avevamo conosciuto come ostile ai nuovi “concittadini”, lo riscopriamo su posizioni differenti, con una mutata sensibilità e una maggiore predisposizione ad accogliere “l’altro”. Come se, appunto, quei secondi di nero avessero dato la possibilità - fuori dall’inquadratura - di ricucire le ferite e ponderare meglio le proprie opinioni, indagare meglio le origini del proprio malcontento e delle proprie frustrazioni.

Nel cinema di Ken Loach, d’altronde, le convinzioni ideologiche sono anche e soprattutto convinzioni (e convenzioni) filmiche. Ed è così che The Old Oak veicola, attraverso il montaggio, il suo insegnamento e l’assoluta fiducia nell’atto e nella gioia di domandare, capire, aprirsi, colloquiare, deporre le armi della conquista per usare strumenti più semplici e più civili a cominciare, appunto, dal dialogo. Il principio stesso del dialogo, infatti, implica la tolleranza in un senso positivo e attivo: e cioè non come sopportazione rassegnata dell’esistenza di altri punti di vista, ma come «riconoscimento della loro pari legittimità e come buona volontà di intendere le loro ragioni», scriveva Abbagnano. Ancora più che nel già essenziale Sorry We Missed You, Loach mette in scena una realtà in cui lo Stato non esiste e non viene neanche più nominato (anche solo per inveire contro di esso), prediligendo un’impostazione teatrale che paradossalmente conferma ciò che i detrattori del regista inglese hanno sempre sostenuto: che oggi il suo campo di interesse è esclusivamente quello della realtà e non quello del cinema. Si possono avere delle riserve sulla ricetta stilistica estremamente ben rifinita e sottilmente affinata di Loach, ma sarebbe impossibile non riconoscere l’acutezza con cui ha sempre adattato la sua analisi ai cambiamenti economici, sociali e strutturali del capitalismo. 

Nel radicale minimalismo della messa in scena, in The Old Oak irrompe con sempre maggiore potenza la naturalezza degli attori emergenti o addirittura non professionisti scelti per il film: Dave Turner, nel ruolo di TJ Ballantyne, vigile del fuoco per 30 anni e presidente regionale del sindacato di riferimento, e Ebla Mari, consigliata a Loach dalla regista palestinese Annemarie Jacir, qui alla sua prima prova cinematografica, dopo aver studiato teatro all’università di Haifa, in Israele. Siriana che non è mai stata - tecnicamente - in Siria, perché nata sulle alture del Golan, occupate da Israele nel 1967. Lavorare al film le ha dato la possibilità di riconnettersi alle sue radici e ascoltare le esperienze di guerra degli altri attori siriani, come nel caso di Yazan Al Shteiwi (Bashir, nel film). Anche nella scelta del casting, quindi, nella volontà di unire, far conoscere e confrontare persone che non avrebbero forse altro modo per farlo, emerge una volontà politica che poi nel film si traduce in una coerenza non solo narrativa, ma anche emotiva, che fa la differenza. 

Un film come The Old Oak espone senza avere l’ambizione di risolvere, adottando in alcuni casi i movimento di macchina tipici del documentario à la Wiseman, e negandosi la possibilità (propria invece di registi e sceneggiatori) di essere ovunque in ogni momento e di poter seguire le vicende di ciascun protagonista. Riempiendo il film di narrazioni inesplorate e sottotrame lasciate in sospeso, Loach sembra ammettere l’impossibilità di un’analisi esaustiva, preferendo stavolta un approccio più limitato e favolistico, in cui un gesto di gentilezza, un pasto collettivo e un po’ di disinteressata solidarietà possono superare il razzismo. Oggi, Ken Loach, 87 anni, alle prese con i problemi della vecchiaia («la mia memoria a breve termine sta svanendo e la mia vista non è più quella di prima», ha raccontato a Cannes) sembra voler chiudere la sua trilogia del nord-est - e forse la sua intera carriera - con un’opera che non sia tragica e definitiva, ma che invece lasci spazio alla speranza di poter costruire insieme l’impossibile. Questo, però, più che una mancanza di rigore e di profondità, sembra il tentativo, speculare a quello dei fratelli Dardenne, di sfidare i giudizi derisori a cui il suo cinema si espone, dell’odio esibito verso i buoni sentimenti scambiato per il non plus ultra della lucidità di pensiero. Una rinnovata fiducia in un linguaggio cinematografico assolutamente privo del cinismo che è invece diventato la regola per molti altri registi.