Marco Bellocchio prosegue con Rapito la sua lunghissima analisi sui temi della separazione e del compromesso. Qual è il confine tra la necessità di scendere a patti con i propri aguzzini - le Brigate Rosse, lo Stato Pontificio - per raggiungere un obiettivo (in questo caso consentire ad un bambino sottratto alla famiglia di tornare a casa) e l’accettazione supina del potere? La progressiva trasformazione del piccolo Edgardo, bambino ebreo misteriosamente battezzato in segreto, all’insaputa dei suoi genitori, in «soldato di Cristo» con una didattica di fanatismo e ostinazione, segue le tappe di quel “potere disciplinare” codificato a suo tempo da Foucault (se pur privato della sua componente di produttività): quel meccanismo che fa di una «pasta informe» una «macchina». Il potere disciplinare va più a fondo, all’interno del soggetto, rispetto alla violenza della spada o del Codice. Penetra per così dire nel corpo, vi lascia delle «tracce» e in tal modo produce degli automatismi dell’abitudine. Deve funzionare discreto e sottile come il potere del codice civile, ma in maniera più diretta, cioè senza passare da concetti da elaborare, bensì da dogmi da accettare senza fare domande. Il potere disciplinare, infatti, si fonda sui riflessi piuttosto che sulle riflessioni. Foucault riconduceva la nascita della prigione a quel tipo di potere lì e non è un caso che la permanenza di Edgardo presso la Casa dei catecumeni di Roma venga ripresa da Bellocchio come una “prigionia” che punta a «formare un soggetto d’obbedienza», mediante una «correzione della condotta attraverso il pieno impiego del tempo, l’acquisizione di abitudini, le costrizioni del corpo»: una «ortopedia concertata», per dirla con le parole del filosofo francese.

Edgardo all’inizio del film non sa nulla del cattolicesimo. È fragile, spaventato, di fronte ai suoi occhi di bambino si spalancano visioni ignote, segni che non riesce a decodificare, quelli di un Cristo crocifisso che gli appendono al collo a ricordargli sempre il crimine commesso dal suo popolo, che ha mandato a morte il figlio di Dio. Non c’è carità cristiana, amore per il prossimo, misericordia, nella rappresentazione che Bellocchio fa della Chiesa, potere fondato su di una continua «ricodificazione rituale» che non può essere messa in discussione perché farlo vorrebbe dire mettere in discussione la stessa religione. Sono i segni del potere (quelli che Don Tonino Bello contrapponeva al “potere dei segni”), che vibrano e diventano «marchio», «monumento» significante. Bellocchio li riprende magistralmente rendendoli misteriosi e “alteri” anche agli occhi degli spettatori, che ovviamente con quei simboli hanno invece dimestichezza e familiarità. Il corpo di Cristo è inizialmente rappresentazione del potere del sovrano che parla attraverso il corpo fatto a pezzi, le cicatrici che il martirio lascia sul fisico, compiendosi come rito, come messinscena che opera con segni e simboli. Man mano, però, quel corpo in croce assumerà un altro significato, trovando una vibrazione mistica - il solo momento davvero spirituale di un film in cui la religione è esclusivamente esercizio del potere e pratica burocratica - nella vita di Edgardo, nella sua irrisolutezza, in un’esperienza intima e privata che non si può scindere dall’appartenenza ideologica, dalla militanza (religiosa o politica che sia). Esperienza di vita segnata irreversibilmente da una ulteriore separazione dal ventre materno dopo quella già operata dal parto, che causa una seconda nascita (non a caso uno dei temi rilevanti sarà la legittimità di un doppio battesimo) e una cesura violenta con quello che è venuto prima. Una seconda vita in cui i segni del potere vincono su quelli dell’amore, dell’affetto, della famiglia. In cui l’immaginario cattolico si dispiega in tutta la sua forza di persuasione, convincimento e suggestione.