A venticinque anni di distanza dall’ultima puntata, Lars Von Trier torna nel suo Regno per dirigere la terza e ultima stagione di The Kingdom, la serie tv danese che, nell’ormai lontano 1994, sorprese e sconvolse il pubblico «da salotto» con una parodia, tra il demenziale e il raccapricciante, dei medical drama allora così in voga. È facile riconoscere oggi come quel progetto apparentemente delirante abbia in realtà anticipato mode e tendenze che sarebbero arrivate dopo ed esplose con The Office o In the Loop (e i loro equivalenti statunitensi, tra cui Veep), codificando quello stile fatto di filmati dalla fotografia sciatta e bruschi movimenti di camera da doc casalingo, con la voglia di ridere di atteggiamenti oltraggiosamente sbagliati, specie sul luogo di lavoro. In questo caso, la serie è ambientata in un ospedale privo di pazienti ma pieno di medici e infermieri, che negli ultimi due decenni hanno cercato di far dimenticare a tutti la cattiva fama che la struttura da cui dipendono aveva ottenuto a causa, appunto, di una serie tv ideata da uno svitato regista.

È tramite la finzione televisiva – le precedenti stagioni della serie, che la protagonista giudica immediatamente “una boiata” – che prende le mosse questo ultimo capitolo metatestuale, che rende la rappresentazione più vera del vero, ma che non fa assolutamente nulla per scongiurare l’effetto déjà-vu o per modernizzare quel tipo di racconto interrotto nel ‘97 (come invece fatto da Lynch per la terza stagione di Twin Peaks). Anzi, fa esattamente il contrario. Tutto è in stile anni Novanta, tutto è uguale a prima: dall’establishing shot dell’edificio visto dall’esterno (scoria di una serialità televisiva ormai archiviata) al filtro color seppia. Von Trier ambisce così a non far percepire alcuno stacco temporale allo spettatore, a dare l’impressione che la sua serie sia stata girata tutta insieme: il mito della continuità totale (che permette alle serie di durare nel tempo, sopravvivendo a registi, sceneggiatori e attori, mantenendo una propria coerenza visiva e narrativa) applicato fino alle sue estreme conseguenze. Il rischio, ovviamente, è quello di prendersi gioco oggi di un mondo televisivo che in realtà non esiste più, di rendere innocuo tutto ciò che prima appariva sfrontato ed eccitante (cioè l’approccio sfacciatamente disinteressato allo stile, gustosamente amatoriale, e alla trama, assolutamente pretestuosa).

Il luogo della cura per eccellenza diventa il luogo di un orrore inesplicabile, quello in cui viene cullato il desiderio della società di curarsi, di non terminare, esattamente come non terminano le immagini di questa d(enm)ark-comedy infinita, che si proietta sempre in avanti e che può essere ripresa in qualsiasi momento, anche a distanza di diversi decenni, almeno fino a quando il primario non decide che è giunta l’ora di staccare la spina. Von Trier, che da tempo ha elevato l’autoreferenzialità a cifra poetica, rimane uno dei pochi autori in grado di rendere sincera la celebrazione di sé, di farla apparire come qualcosa di autentico. Come sempre, però, il suo cinema trova i momenti più intensi quando ammette la sconfitta, cioè quando il regista rinuncia ad essere il demiurgo della sua opera-gioco, quando il gusto situazionista prende il sopravvento e l’opera si fa incerta ed inconcludente, pur essendo finita e de-finita (mai come in questo caso, visto che la terza stagione nasce proprio dalla volontà di dare una conclusione alla trilogia).

The Kingdom è, per forza di cose, una serie tv poca innovativa rispetto a se stessa, un prodotto che ha la prima e fondamentale qualità nel suo essere insoddisfacente, luogo dell’insoddisfazione. Una serie inattuale e quindi priva della preoccupazione ideologica di capire o precorrere i tempi, fatta di immagini che nascono e muoiono incessantemente, capaci di far dimenticare allo spettatore come, dove e quando sono nate, perciò capaci di farglielo poi domandare. Lars Von Trier torna per cancellare le tracce di quella sua formidabile intuizione, di quella sua involontaria fuga in avanti, rivendicando la possibilità di essere fuori tempo massimo.