Ridurre il dramma shakespeariano al suo “haiku”, spogliandolo dell’inessenziale e riducendolo all’osso. Questa è l’idea su cui poggia The Tragedy of Macbeth, primo film di Joel Coen senza il fratello Ethan, ma con la presenza fondamentale di Bruno Delbonnel, che aveva già curato la fotografia di Inside Llewyn Davis e The Ballad of Buster Scruggs. È così che i due hanno deciso di riprodurre il castello scozzese in un teatro di posa, eliminando qualsiasi forma di arredamento e ricercando la scarnificazione metafisica di De Chirico, il rigore di Carl Theodor Dreyer. L’Academy Ratio (1.37:1) rimuove completamente lo spazio scenico con primi piani che riempiono lo schermo e un digitale 4K nitidissimo nega l’effetto neofobico. Esasperando una delle componenti fondamentali del testo originale, ovvero l’ambiguità mai risolta sul momento della giornata in cui si svolgono gli eventi, Coen e Delbonnel non giustificano la provenienza della luce, ignorano la coerenza della fotografia e passano dal giorno alla notte anche in un’unica sequenza.

The Tragedy of Macbeth trova un impossibile punto di sintesi tra il cinema di Fritz Lang e quel “teatro del divino movimento” teorizzato da Edward Gordon Craig, a cui le scenografie del film si ispirano. Opponendosi alla messa in scena tradizionale delle opere shakespeariane, Craig sosteneva che quella del drammaturgo inglese fosse una “poesia delle idee” riproducibile a teatro in una forma esclusivamente visiva, arrivando a negare le parole del testo e ad annichilire la recitazione. Joel Coen decide di fare esattamente l’opposto, di utilizzare quelle intuizioni visive (ad esempio far indossare ai personaggi costumi di un colore molto simile a quello della scenografia) per esaltare i versi di Shakespeare. Quelli che compaiono nel film come residui di una ipotetica rappresentazione teatrale mai realizzata (i fondali dipinti negli esterni, l’assenza dei soffitti negli interni) rendono evidente l’impossibilità di pensare al di fuori del cinema. Un senso di incompiutezza che si riflette nell’ossessione per gli archi, elementi che lasciano sempre “presentire”, per dirla con Otto Weininger, in cui vi è necessariamente qualche cosa di inconcluso, che ha bisogno ed è ancora capace di compimento. I muri, che sembrano segnare i confini del mondo, negare la possibilità di esistenza al di là di essi, negli archi trovano uno squarcio verso l’ignoto, si aprono alla possibilità dell’attraversamento.

Se gli elementi visivi che ricorrono sono quelli tipici delle scenografie di Craig (non solo archi, ma anche rampe di scale e torri), allo stesso modo la scelta del bianco e nero si adegua all’insegnamento dello scenografo britannico, che consigliava, per il Macbeth, di utilizzare solo due colori: uno per gli uomini e uno per i fantasmi, giocando con le loro sfumature per indicare i diversi gradi di compenetrazione tra i piani della narrazione. Così l’unica ambientazione “in esterna” del film, un gigantesco incrocio con una casa diroccata nel mezzo, sovrastata dalle nuvole, rievoca quella semplificazione metaforica di cui proprio Craig si servì per descrivere il dramma di Shakespeare: “una roccia progressivamente corrosa da una nuvola umida sopra di essa” (e anche in questo caso la somiglianza è evidente con uno dei presunti quadri böckliniani di De Chirico: Serenata, 1909). Joel Coen utilizza pezzi mobili di scenografia (grazie a delle ruote) per creare in continuazione nuove disposizioni e di conseguenza modificare la scala dei personaggi rispetto agli elementi architettonici. La fotografia di Delbonnel unisce le leggi del movimento a quelle della musica, utilizzando la luce come la sezione di un’orchestra che emerge e si placa a seconda dell’andamento della composizione: se i primi dieci minuti del film - quando ancora la narrazione è confusa - si muovono all’interno della scala dei grigi (come se fosse l’introduzione di una sinfonia musicale), il film diventa sempre più netto nei suoi bianchi e nei suoi neri man mano che si procede verso il cuore della melodia.

The Tragedy of Macbeth è un’opera consapevole delle precedenti (e celebri) versioni cinematografiche del capolavoro teatrale e per questo Joel Coen tenta un approccio personale enfatizzando gli elementi proto-noir del racconto (non a caso è il secondo film in bianco e nero dopo L’uomo che non c’era, il più smaccato omaggio al genere tra quelli realizzati con il fratello Ethan). È una versione senile della tragedia shakespeariana, in menopausa, in cui ‘for thy undaunted mettle should compose / nothing but males’ diventa ‘should have composed nothing but males’. Come Ed Crane (volendo approfondire il paragone), anche il Macbeth di Denzel Washington è un personaggio vittima delle proprie macchinazioni, sulla cui testa aleggia un imminente senso di catastrofe. “L’eco dei colpi misteriosi picchiati laggiù” (citando il Giorgio de Chirico di Ebdòmero) percuote il film, sottolineando l’incessante bussare che conduce alla pazzia il protagonista, indisposto dal suono dei suoi stessi passi. Il montaggio segue questo andamento cadenzato, si fa continuamente rintocco e serve il ritmo del metro shakespeariano (la cui corrispondenza visiva non può che essere una rigida alternanza binaria di ombra e luce).

È questo ciò che Carl Einstein chiamava “mantica tettonica”, che contiene il sogno e la divinazione del sogno, ma anche téchne. La “poesia architettonica” che si basa sulla coscienza assoluta della posizione che deve occupare un oggetto nello spazio, stabilendo “una nuova astronomia delle cose attaccate al pianeta per la fatale legge di gravità”. Trovare un punto fermo nel delirio di onnipotenza, nella deformazione onirica, attraverso i mezzi della ratio, che diventano poesia solo se resi soggettivamente magici, mitici, poiché è questa contro-logica del mito e della magia la base della rivelazione metafisica. È con lo spazio cosmico di Aurora di Murnau, con un tipo di messa in scena che avvicina Macbeth a Otello, con un movimento di macchina sempre simmetrico, che avviene solo quando gli attori decidono di innescarlo (una tecnica mutuata da Kurosawa), che Joel Coen riesce a trovare la chiave del suo film. A trasformare Inverness nella Casa Barragan a Mexico City fotografata da Hiroshi Sugimoto (non un castello, ma l’idea di un castello). A cambiare la prospettiva: convinti di guardare il cielo nella scena iniziale, ci si accorge improvvisamente di avere invece gli occhi puntati verso il basso, di essere condannati ad una posizione di osservazione sulle miserie umane che è la stessa delle streghe.