«Family, art, life. It will tear you in two», predice il prozio al giovane protagonista del nuovo film di Steven Spielberg. In quel pronome singolare mette immediatamente sullo stesso piano famiglia, cinema, esistenza, come un unico elemento che tiene tutto insieme, che annulla le differenze (ma ci sono davvero?) tra quelle tre esperienze. Il piccolo Sammy, in un inizio tra i più belli della filmografia di Spielberg, si trova faccia a faccia con la sostanziale obliquità dell’immagine, con la catastrofe-cinema de Il più grande spettacolo del mondo di DeMille, che in un deragliamento ferroviario potenzia e rinvia l’illusione enfatizzata del movimento, rende evidente la “distanza” dal reale da cui nasce l’insoddisfazione dello spettatore davanti all’incompiutezza stessa del mezzo. Se ad alcuni quel desiderio di movimento, azione, spettacolo, pare ingenuamente “realizzato” tecnicamente e cinematograficamente dall’avverarsi dell’immagine su schermo, il ragazzino-spettatore di The Fabelmans non sembra averne abbastanza e sente l’immediato bisogno di replicare quell’epifania, prima a livello inconscio, con un incubo notturno, e poi, subito dopo, distruggendo il trenino elettrico che ha ricevuto in regalo. Sammy cerca di comprendere ciò che ha visto cercando nuovamente quell’immagine abbacinante nella sua accumulazione, nella ripetizione ossessiva di stampo fotogrammatico, nella clonazione, nella risperimentazione di un piacere già provato, che proprio nel suo riconfigurarsi all’infinito eccede la dimensione del piacere stesso, facendosi di esso un riflesso, un indizio, una proiezione da osservare di nascosto in un armadio, come se fosse un gesto proibito, una pulsione (autoerotica?) che non si può tenere a bada.

Ovviamente il coming of (im)age del piccolo Sammy comincia dal suo dono quasi miracoloso, quello di riuscire ad imporre alla cinepresa, con trucchi e stratagemmi, solo ciò che lui è interessato a mostrare. Ma col tempo quell’illusione diviene arroganza e poi presa di coscienza che non si può mai “controllare” completamente l’immagine, destinata invece a sfuggire sempre sia alla volontà di chi la vorrebbe manipolare, sia a quella di chi la osserva, vulnerabile ad ogni imprevedibile effetto. È ciò che succede ad esempio al bullo della scuola, che, messo davanti alla sua rappresentazione idealizzata, simile a quella di un dio greco, non sarà affatto felice e lusingato, ma entrerà in crisi, fino a chiedersi chi sia davvero. Una curiosa sequenza al culmine del film che impone definitivamente il cinema come forza rivelatrice, specialmente quando si tratta di identità e “whiteness”.

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