È sempre stato un cinema in fuga quello di Jerzy Skolimowski, autore vagabondo e dell’esilio, fin da quando fu ‘attenzionato’ dal Partito Comunista polacco di Gomulka già con il suo secondo film. Questo suo ultimo lavoro, a 84 anni, dall’onomatopeico titolo EO, è ancora una volta un’odissea muta come quella di Essential Killing, con protagonista un asino che fugge da tutte le situazioni, una più spiacevole dell’altra, in cui si trova ovviamente non per sua volontà. Un viaggio picaresco dalla Polonia all’Italia, sognando Bresson. Con questo remake sotterraneo, rilettura dichiarata di Au hasard, Balthazar, il maestro polacco offre un autoritratto tragicomico dell’artista come un asino testardo e misantropo, che non si fa illusioni sulla crudeltà degli umani. Le immagini di EO, al limite dell’astrazione, trasmettono un piacere contagioso per le lunghe carrellate, gli effetti cromatici, i grandangolari e le visioni stroboscopiche, dove sonoro e musica (del compositore Pawel Mykietyn), si inseriscono in un grido potente contro il male che percorre il nostro mondo. Il film adotta lo stesso placido andamento del suo protagonista, lo stesso sguardo distante sulle cose che riguardano il circo, spesso crudele e spietato, della vita.

Skolimowski fa tutto questo senza contrapporre binariamente alla violenza e bassezza umana l’amore idealistico per tutti gli animali, come altre parabole cinematografiche simili hanno sempre fatto. È difficile empatizzare per lupi e gufi, spietati predatori di notte, o per le mucche inebetite e impassibili davanti a ogni avvenimento che accade loro. L’apprezzamento non è per il regno animale nel suo insieme, ma solo per quell’asino che il regista vuole renderci amico. Per quel suo sguardo malinconico che diventa l’unico filtro attraverso il quale osservare la realtà. La regia trasforma il ciuco in un personaggio complesso, al punto tale che ogni presenza umana diventa rumore di fondo, campionamento di dialogo in una trama sonora che ne farebbe benissimo a meno. Skolimowski altera e ribalta continuamente il mondo attorno all’animale in modo che la sua misteriosa fissità possa suggerire ogni volta qualcosa di diverso a chi guarda.

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