Il nuovo film di James Cameron, a tredici anni di distanza da quel successo clamoroso che cambiò radicalmente il modo di intendere la tecnologia al servizio del cinema, torna ancora una volta sul tema della “connessione” con gli altri, della possibilità di rivedersi in un altro uomo, in un’altra razza, in un’altra tribù e, con La Via dell’Acqua, persino in un’altra specie animale. Stavolta “avatar” non è solo un corpo nuovo e diverso da padroneggiare, ma è l’alterità da sé stessi in cui riconoscersi e rispecchiarsi. Il cinema di Cameron torna ad essere una questione di ibridazione, di transpecismo, di esperienze umane ormai residuali che diventano dolorosa “phantom limb syndrome”, in cui ciò che è stato rimosso e amputato (immagine che si presenta in più occasioni) torna sotto forma di ossessione. I meccanismi che regolano le relazioni tipicamente umane nel cinema di Cameron non sono quasi mai spiegabili sul piano biologico, perché desideri che nascono dal non essere completamente definibili in maniera univoca, ma a metà tra nature differenti e conflittuali. Tutte le dinamiche più tradizionali del cinema hollywoodiano sembrano qui riprodursi in maniera ibrida, mai definitivamente soddisfacente, ma invece difettosa e carente. E così uno dei problemi cinematografici più classici, quello del complesso di Edipo, può essere risolto - ad esempio - tra due personaggi che non hanno quasi nulla in comune (un clone Na’Vi e un ragazzo che ha deciso di abiurare alla propria specie umana) ma che vivono ugualmente la loro fantasmatica relazione padre-figlio oltre la genetica e la discendenza di sangue, come se rispondessero ancestralmente a delle regole che percepiscono come illogiche e obsolete ma che non hanno il coraggio di rinnegare. Ed è un po’ qui che sta tutto il senso, nel bene e nel male, di questo secondo capitolo di Avatar, attraversato da una nostalgia per il futuro (cinematografico) perduto, quello che tredici anni fa il primo film ha cercato di avviare e che oggi appare forse irrecuperabile. Nell’ostinazione militante di un regista che percepisce la sua inattualità ma non è disposto a rinunciare ad essa.

Anche La Via dell’Acqua è, in questo gioco di emanazioni e riproduzioni, immagine speculare del primo film, di cui riprende pedissequamente i meccanismi della narrazione, per replicarli e doppiarli (anche perché, in chiave commerciale, è necessario riproporre lo stesso film per avere di nuovo l’attenzione del pubblico, non sempre predisposto a ripassare i testi per prepararsi alla visione dei sequel). Nel film del 2009 lo spettatore, come il soldato protagonista, doveva abituarsi a corpi fittizi che erano proiezioni e simulacro di quelli reali (non solo la popolazione aliena, ma gli stessi attori trasfigurati con il motion capture). E oggi, nuovamente, come Jake Sully e la sua famiglia, costretti a lasciare la foresta ancestrale e a reimparare a vivere nel loro nuovo ambiente acquatico, chi guarda deve abituarsi ad un respiro e ad un battito diverso, che è quello dell’high frame rate a 48fps anziché i classici 24. Cameron si prende il tempo di osservare ogni creatura, ogni fiore, ogni piccolo evento naturale come se fosse un miracolo a cui contrapporre la carne umana filmata in tutta la sua stranezza, per non dire mediocrità, accentuata dal famoso effetto “soap opera” dell’HFR, che fa venire sempre voglia di immergersi di nuovo, tuffarsi sott’acqua, tornare a nuotare con le creature digitali. L’iper-realismo non è mai deliberatamente accentuato e straniante come nel cinema di Ang Lee (che, a differenza di Cameron, ha voluto sperimentare questa tecnologia in contesti diversi da quelli action o sci-fi), ma lo stesso ogni volta che un Na’vi imbraccia un’arma semiautomatica percepiamo tutta la violenza e la volgarità di quel gesto. E così per ogni esoscheletro meccanico che entra in scena, per ogni velivolo militare che invade l’orizzonte visivo, per ogni macchinario bellico che si rivela in tutto il suo squallido grigiore, riconosciamo la tristezza della materia che costituisce gli strumenti della guerra umana, fabbricati per bruciare, crivellare, annientare la bellezza di un mondo che invece ci appare come l’unica cosa davvero vivida, pulsante e desiderabile. Che vale la pena proteggere.

Eppure più si esplora il mondo lussureggiante di Pandora, più si è colpiti dall’estrema solitudine del film e dell’idea di cinema che rappresenta. Avatar: La Via dell’Acqua è un oggetto terribilmente anacronistico: la rivoluzione 3D sollecitata dal primo film non è mai avvenuta e l’intrattenimento di massa ha scelto percorsi diversi da quelli suggeriti a suo tempo. Cameron, ignorando l’iperindustrializzazione imposta dalla Marvel, continua a fare film come se la serializzazione fosse ancora un fenomeno marginale, diverso da quello cinematografico e tutto confinato nel mondo televisivo. Anche questo suo nuovo film offre una narrazione molto lineare, composta da una sola spina dorsale nella quale si incastrano tutte le altre sottotrame, e insegue l’autosufficienza del racconto nonostante i sequel già annunciati. La Via dell’Acqua non ha la bellezza prometeica ed elementare del suo predecessore - quel senso di gioia e curiosità nello scoprire un mezzo-medium nuovo, imparare a correre e a saltare con esso - ma ci ricorda, non senza malinconia, come è cambiato il cinema hollywoodiano in questi tredici anni, ormai allontanatosi dal mercato cinese (che tanto aveva contribuito al successo del primo film) e retto da esigenze di produzione che richiedono tempi sempre più veloci. Non stupisce quindi che la sceneggiatura sia stata scritta per piacere a tutto il mondo, così innocua da mettere al centro questioni così primitive e basilari che chiunque, a qualunque latitudine, possa comprendere.

La classicità di Cameron è innegabilmente la sua forza e la sua debolezza, ciò che contribuisce a rendere Avatar una scoria nel panorama contemporaneo, specie per una strana reticenza a condividere il bisogno di ripensare gli stereotipi di genere all’interno della narrativa popolare archetipica. Se nella sua filmografia non sono mai mancati personaggi femminili “empowered” (anche nel primo film di Avatar), Neytiri in questo secondo capitolo è costantemente ridotta al suo status di madre: ogni sua apparizione in scena consiste nell’affermare la necessità di proteggere la propria famiglia come un lupo, come se non esistesse nessun’altra realtà più grande della propria sfera privata. Il familismo, ovvero la difesa della propria famiglia in modo tribale, diventa il motore di ogni azione, fino al punto in cui i suoi occhi iniettati di sangue (enormi, in Cgi, veicolo di ogni sentimento più nascosto) terrorizzeranno uno dei giovani personaggi, rivelando una regressione di Neytiri allo stato più animalesco. La migliore e più efficace dimostrazione di come la guerra e la violenza possano trasformare in peggio persino chi la subisce, ma anche un’ambigua rassegnazione ad un universo, quello di Pandora, in cui il patriarcato è ancora l’unico orizzonte visibile.

Rimane da capire come alcune questioni di fondo (ad esempio quella sul pacifismo, scelta che caratterizza le specie superiori e semi-divine, poi apparentemente ridiscussa nel finale) saranno affrontate nei prossimi capitoli. Se quello sguardo truce alla Hunger Games nell’ultima inquadratura sarà il preludio ad una continuazione belligerante del franchise o ad un pericoloso invasamento (come quello già menzionato di Neytiri) che può minare alla base ciò che questi due film hanno voluto dire con chiarezza: che non spetta a un supereroe (e nemmeno a un salvatore bianco), il compito di salvare il pianeta, ma ad un collettivo fluido, interconnesso, senza inizio né fine, come la via dell’acqua insegna. I Na’vi più adulti hanno perso la loro innocenza? E riuscirà una nuova generazione (ibrida, ovviamente) a riconsegnargliela?

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