Il cinema secondo una delle molteplici e inafferrabili definizioni di Enrico Ghezzi è la punta di un iceberg di un immane apparato di registrazione che segna una svolta nella storia dell’umanità, ovvero la possibilità di rivedere la propria esistenza. L’equazione cinema-fantasma è così evidente che Orson Welles la celebrò con poetica nostalgia nelle scene del suo magnifico e incompiuto Don Chisciotte, con il cavaliere che si precipitava a cavallo contro uno schermo su cui erano proiettate delle immagini. I mulini a vento, o più esattamente i Giganti, non sono altro che (il) cinema. E cinema adesso può diventare anche il Leviatano che ha oscurato il sole del 2020: ci ha inghiottito singolarmente e tra le sue coste poi ci siamo ritrovati tutti.

Il cinema fatto di immagine, eidolon, come quella della madre che Enea incontra nell’Ade (Eneide, XI), ma che quando cerca di abbracciarla dolorosamente svanisce. Attraverso l’invasione delle telecamere nello spazio scenico accessibile-chiuso del Fuori Orario, reso ipervisibile, si moltiplicano i punti di vista, assistiamo al dispiegamento della macchina-cosa del cinema al suo livello più apparente, lo vediamo affollato di uomini-macchinadapresa che si rivelano allo spettatore, evocatori di presenze spettrali, azionatori di macchine del fumo i cui vapori hanno la consistenza dei ricordi, che arrivano agli occhi come aerosol per la retina. Il Natale al Fuori Orario di Vinicio Capossela non è banalmente uno spettacolo che viene filmato, ma uno spettacolo che esiste per essere filmabile (la regia è di Gianfranco Firriolo).

Riconoscersi in ciascuno dei diversi punti di visione, dislocati nello spazio e nel tempo, è una questione di immediatezza quasi domestica, ma ugualmente si è impossibilitati ad assumere su di sé la possibilità di essere contemporaneamente gli occhi di tutti gli spettatori. Il tempo è la condanna a non poterli essere umanamente. Così il veglione di Capossela diviene un “iper-spettacolo” sulla festa che non è, che scambia e moltiplica il punto di osservazione. Accetta lo spettacolo come luogo/nonluogo a sé, isola nel cielo, “set spettralvitale”, e ne fa un lavoro di rimessa, rimissaggio, rifilmaggio di quel che è già accaduto e caduto, versato, secondo il clinamen di una colante gravità cinematografica. Un imbuto, come dice lo stesso Capossela, in cui ci si affolla per cadere più lentamente. Perché da soli si precipita prima.

Ogni catastrofe – per poter essere considerata tale da qualcuno – deve avere i suoi superstiti. E questi possono essere tali anche se la catastrofe è destinata a continuare ancora per qualche mese, a seppellirci e a viverci. E noi con essa. L’unico (nostro) modo possibile è essere fuori contesto, fuori-luogo, fuori-norma, fuori-tempo, inafferrabili, imprecisi.

Mi basta una candela. Il suo lume gracile / meglio propizia, con più pietà, l’incontro / coi fantasmi, che tornano, d’amore / Mi basta una candela. Mia camera, stasera / rimani semibuia. Mi voglio perdere / nell’Indeterminato e nella Suggestione / e in quest’alito minimo di luce / attirare visioni / di fantasmi, che tornano, d’amore (Konstantinos Kavafis, traduzione di Guido Ceronetti)

Fantasma è Renato Striglia, leggenda dei Murazzi, dj del rock and roll, con Shock and Roll su Radio Torino Popolare prima e quindi con Puzzle su Radio Flash. Era lui che, ogni anno, dopo lo show, faceva ballare i peggiori amici che si radunavano al Fuori Orario.

Fantasma è Gianni Mura, che sulla narrazione spettrale ha costruito una invidiabile letteratura. Il gol-fantasma tra inglesi e tedeschi nel 1966 (quello di Geoff Hurst durante la finale Inghilterra-Germania Ovest del Mondiale) e poi di nuovo nel 2010, a 44 anni di distanza: ancora un gol-fantasma tra inglesi e tedeschi, anzi, per usare le parole di Mura, “il fantasma di un gol che c’era, ma non fu concesso e che vaga ululando nelle orecchie del guardalinee Espinosa, dell’arbitro Larrionda ma anche in quelle di Fabio Capello”. Aedo di giocatori-fantasmi come Romário nella finale tra Italia e Brasile nel 1994: dopo una punizione c’era ancora una barriera, quattro giocatori in linea, strettissimi, c’era lui con la palla, c’erano dietro altri difensori, e improvvisamente lui, che prima era davanti a questi giocatori, dopo una frazione di secondo si trovò dall’altra parte. Nessuno riuscì a vedere dove passò la palla. Una cosa assolutamente invisibile. Invisibile anche di fronte al replay. Non a caso per Ghezzi, in conversazione con Carmelo Bene, “Romário era tutto il cinema americano”. Fantasmatico come Harry Gordon, allibratore che Jake LaMotta (altro spettro caro a Capossela) aggredì con un tubo di metallo e che per anni credette di avere ammazzato, convincendosi di essere un assassino. Gordon però, che era stato trovato agonizzante dalla polizia, sopravvisse e riapparve nel camerino di LaMotta la sera in cui Jake divenne campione del mondo.

Fantasma è Christopher Wonder, il solo forse in grado di restituire la clandestinità ad una canzone come Fairytale of New York dei Pogues, recentemente censurata dalla BBC e difesa a spada tratta da Nick Cave: “L’idea che una parola, o un verso, in una canzone possano semplicemente essere cambiati senza fare danni significativi è un pensiero che possono avere sono persone che non sanno niente della fragile natura dello scrivere canzoni. Quella diventa una canzone che è stata manomessa, compromessa, addomesticata e castrata, e non può più essere definita una grande canzone. Una canzone che ha perso la sua verità, il suo onore e la sua integrità”. Verità, onore e integrità che vengono consegnati da Wonder attraverso il loro opposto: la finzione della magia, la spudoratezza e la dissolutezza. Nella consapevolezza che nessuna immagine si può abitare innocentemente.

Vinicio Capossela è accompagnato da Enrico Lazzarini, Michele Vignali, Teo Ciavarella e Vincenzo Vasi, “rumorista intraterrestre” messo lì ad amplificare l’assenza di un’orchestra vera e propria, non a colmarla. Amplificatore di echi. L’inquietudine dell’assenza spinge a non accettare l’immediato come forma di incomunicabilità, che l’immediato puro è carattere inesistenziale, ossia qualcosa di incompatibile con la sfera dell’esistenza, che non ci vuole immediati, passivi, amorfi. Accontentarsi dell’immediato vuol dire rinunciare a vivere. Il complesso delle azioni umane deriva dall’assenza, dal dolore, dalla carenza, dal bisogno. In ciò che non è, l’uomo rende misura di ciò che è. Anche per questo lo spettacolo filmabile di Capossela al Fuori Orario si pone come visione sfalsata, che è già oggi come sarà tra cinque o dieci anni, sfuggendo alla prossima, implacabile, fantozziana, utilità documentaria.

Come nella scena in cui il capitano Jean Dasté trova il sorriso della sua amata Dita Parlo nelle acque del fiume in una sovraimpressione amorosa in cui è racchiuso tutto il cinema, gli abbracci fantasmatici di coppie che ballano si compenetrano nel viso del cantore. Le note non sono quelle di Because the Night di Patti Smith, ma quelle di Ovunque Proteggi. In entrambi i casi, al Fuori Orario di Ghezzi e al Natale al Fuori Orario di Capossela, le immagini si sovrappongono e rendono evidente l’essenza stessa del cinema.

Il filmato dello spettacolo è disponibile on demand fino al 6 gennaio; è possibile acquistare il biglietto su: www.viniciocapossela.it, www.internationalmusic.it, www.lacupa.it e www.sponzfest.it