I miei film sono deplorevoli perché scoprono quei genitali che tutti vorrebbero coprire. Mi scuso per aver indotto il pubblico a guardare i miei film con il pretesto della difficile situazione del cinema indipendente. Mi scuso per aver esagerato gli aspetti orribili e oscuri della società coreana e mi scuso per aver insultato eccellenti registi coreani con le mie opere che imitano il cinema d’autore ma che sono, nei fatti, esempi di masochistica masturbazione, o, forse, semplicemente spazzatura. Ora mi rendo conto di essere inadeguato per vivere in Corea.
Così, ironicamente, Kim Ki-duk si scusava per aver pubblicamente denigrato il pubblico coreano nell’agosto del 2006. Rompendo un silenzio mediatico durato due anni, il cineasta coreano suscitò scandalo per alcune affermazioni pronunciate durante la conferenza stampa di lancio del suo nuovo film Time, prodotto da una società giapponese. In quella occasione gli fu chiesto cosa ne pensasse del successo del blockbuster The Host, che era stato distribuito in 620 sale (un numero senza precedenti in Corea). La sua risposta fu lapidaria: “Il successo di quel film è un evento causato dal perfetto incontro tra il livello del pubblico coreano e il livello del cinema coreano”.
La storia personale di Kim Ki-duk è sempre stata una storia di resistenza alle parole, considerate come fonte di fraintendimento e confusione. Ha cercato di parlare il meno possibile e, quando lo ha fatto, si è trovato spesso al centro di enormi polemiche (specialmente in patria). Per questo i personaggi subalterni del suo cinema possono parlare, ma non parlano. È il caso di Tae-suk in Ferro 3, un innocuo scassinatore che rimane in silenzio nonostante le ripetute percosse perpetrate da un agente di polizia che tenta di estrarre un falsa confessione di stupro. Ma lo stesso vale per Hee-jin ne L’Isola, titolare di un atipico villaggio turistico galleggiante che, dopo aver soddisfatto sessualmente uno dei clienti, si rifiuta di assecondarlo verbalmente in cambio di una grossa mancia. In entrambi i casi, i personaggi subalterni - rispettivamente un senzatetto e una prostituta - sfidano l’autorità della classe dominante non pronunciando ciò che gli altri desidererebbero sentire da loro (e per estensione, non parlando affatto, provocando la costernazione dei loro impazienti ascoltatori). I personaggi dei suoi film non sono quasi mai davvero muti. Semplicemente non vogliono parlare o, più frequentemente, non credono nella reale utilità della comunicazione verbale. Non sono taciturni per una impossibilità, ma per la loro totale sfiducia nelle parole.
Il silenzio è la manifestazione della sfiducia di Kim Ki-duk nei confronti del discorso basato sul linguaggio verbale e dei sistemi di significazione controllati e manipolati da chi detiene il potere. I ribelli dal cuore d’oro che popolano i suoi film vengono scambiati per “bad guys” a causa delle loro azioni provocatorie e dei loro atteggiamenti impenitenti. Tuttavia, a differenza dei suoi personaggi, che mantengono il silenzio di fronte alla violenza, Kim ha spesso ceduto e parlato. “Scusandosi” pubblicamente nel 2006, fece ciò che veniva ripetutamente chiesto ad Han-gi nella scena iniziale di Bad Guy. Attraverso le sue parole “estreme” di masochismo e apologia, tuttavia, il regista ribaltò la situazione, rivelando la crudeltà collettiva diretta verso una minoranza non conforme.
Kim Ki-duk ha sostenuto ed elaborato negli anni la sua filosofia della comunicazione senza parole in varie interviste. Nelle sue discussioni con Merajver-Kurlat, diceva: “Considero i silenzi come parole. I silenzi sono parole nel senso più vario. Le risate e le lacrime sono i dialoghi più brillanti che si possano scrivere”. Ma oltre alle citate interpretazioni del mutismo o del silenzio (sfiducia nelle parole e resistenza politica), film come Ferro 3 suggeriscono un altro potenziale del silenzio come agente attivo e facilitatore della comunicazione. Proprio come il rifiuto del linguaggio basato sulle sue funzioni più negative (bugie, distorsioni, calunnie) è motivato dalle molte delusioni che le parole hanno causato negli anni al regista, la sua predilezione per la comunicazione non verbale derivava dalla sua personale esperienza parigina, dove imparò a cavarsela senza imparare la lingua e osservando solo le “espressioni e le movenze” di chi gli stava attorno.
È nella capitale francese, dove si trasferì nel 1990 per lavorare come pittore, che Kim Ki-duk si avvicinò al cinema prima di tornare in patria tre anni dopo e reinventarsi sceneggiatore. Le due visioni fondamentali furono Il Silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme e Gli amanti del Pont-Neuf di Leos Carax.
“L’occhio umano vede fino a 180 gradi”, dice la guardia carceraria a Tae-suk, che si nasconde nella cecità degli altri 180. Più la presenza del montaggio è visibile, più l’immersione totale nell’opera risulta disturbata: per questo Hollywood, proprio con la regola dei 180 gradi, limita al massimo la percezione della sua esistenza, mascherandola con dei vincoli specifici. Lo fa suddividendo lo spazio scenico in due porzioni: lo spazio scenico visibile e lo spazio scenico invisibile. Ognuna di queste porzioni è di 180°. Nella prima, lo spazio scenico visibile, si posizionano gli elementi profilmici, nella seconda le attrezzature per la ripresa. Il cinema di Kim Ki-duk è stato lo sforzo coerente di esporre la metà invisibile della società sudcoreana, ciò che si trovava nei 180 gradi a cui l’occhio non poteva accedere. Un’operazione di progressiva sostituzione degli spazi cinematografici dominanti del lavoro, del tempo libero e del consumo della classe media urbana - uffici, loft, caffè, centri commerciali, ristoranti di lusso - con spazi alternativi di esilio e alienazione, come rifugi per senzatetto sulla riva del fiume Han (Crocodile), vicoli di criminalità (Wild Animals), motel (The Birdcage Inn, Bad Guy, La samaritana), campi militari (Indirizzo sconosciuto), prigioni (Bad Guy, Soffio) e aree remote (L’Isola, Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, L’Arco). E anche quando il contesto è quello residenziale della classe borghese (Ferro 3, appunto), è in una casa coreana tradizionale (hanok), ennesimo spazio di marginalità nella metropoli ipermoderna di Seoul, che due emarginati sociali si sentono a proprio agio e consumano il loro amore.
Ma persino la casa tradizionale coreana fu oggetto di un lungo fraintendimento con il pubblico del suo Paese, che lo accusò di voler fornire una immagine falsa e “turistica” della propria nazione avendo come mercato di riferimento quello europeo, che lo aveva premiato nei principali festival. Fraintendimento che esplose nel 2008 con Bimong, quando Kim Ki-duk scelse di far recitare il giapponese Odagiri Jo nella sia lingua madre, senza che questo ponesse un problema di comprensione con il doppelganger coreano Yi Na-yong. La mescolanza delle due lingue (giapponese e coreano) richiamava i tempi coloniali, quando ai coreani venne imposto il bilinguismo. Per questo fu nuovamente accusato di scarsa sensibilità nei confronti dei suoi connazionali e di inseguire un proprio tornaconto personale (in Europa in pochissimi avrebbero notato la differenza tra le due lingue). Gli accusatori, però, fraintesero la concezione transnazionale del testo, in grado di trascendere le barriere etnico-linguistiche ed esplorare questioni essenziali, libere da specificità culturali. Non c’era nessun reale motivo per cui la Corea dovesse essere l’ambientazione del film e la provenienza dei personaggi non aveva alcun valore. Ancora una volta, le parole generarono confusione (dentro e fuori dall’opera).
Il cinema Kim Ki-duk è un luogo decentrato di significato, una litania di opposizioni binarie: silenzio contro parola, realtà contro fantasia, verità contro inganno, moralità contro immoralità, tenerezza contro violenza, amore contro odio, felicità contro miseria, speranza contro disperazione, vittima contro perpetratore, modernità contro tradizione, Occidente contro Oriente, mascolinità contro femminilità, giovinezza contro vecchiaia, corruzione contro redenzione, crudeltà contro misericordia. Opposizioni che possono esistere solo come unica entità, dal momento che tutto il cinema del regista coreano si fonda sulla massima: “Il bianco e il nero sono lo stesso colore”.
Non poteva quindi che essere una fine dislocata quella di Kim Ki-duk. Una fine assurda e solitaria. Giunta quando, ancora travolto dal recente scandalo #MeToo, cercava di recuperare un’aura probabilmente perduta imbarcandosi in una co-produzione coreana-lettone. Era però arrivato in ritardo per ottenere gli aiuti di Stato della repubblica baltica necessari per realizzare il film. Quindi era tornato a fine novembre in Lettonia per ripresentare la domanda e cercare un alloggio dove rimanere per qualche mese. Poi, all’improvviso, la scomparsa. Nessuno ha saputo più nulla di lui per giorni, fino a quando un sito web ne ha annunciato il decesso in un ospedale per complicanze legate al Covid.
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