Zemeckis, per questo suo nuovo adattamento traboccante di postmodernismo, fin troppo consapevole di se stesso, approccia il capolavoro di Collodi calandolo nelle atmosfere, a lui più familiari, di quel “gotico per l’infanzia” messo a punto a suo tempo da Roald Dahl. Un genere caratterizzato innanzitutto dalla presenza di cambiamenti irreversibili che coinvolgono i personaggi nella storia, trasformazioni e alterazioni, spesso non positive, da cui non si può più tornare indietro, ma che bisogna accettare nella loro inesorabilità, con le quali bisogna imparare a convivere. Ne era un esempio emblematico proprio quel The Witches che Zemeckis aveva deciso di trasporre su schermo nel 2020, scegliendo di recuperare il finale originale di Dahl e non quello più ottimista dell’adattamento cinematografico di Roeg. Il protagonista veniva definitivamente trasformato in un topo, senza che questo avvenimento non più rimediabile costituisse necessariamente un dramma. Un fatalismo codificato negli anni Ottanta e poi divenuto tratto comune di quella letteratura per giovani adolescenti proseguita con Dimanche Diller (nel cui prologo si leggeva chiaramente: «bisogna accettare il fatto che, di tanto in tanto, la vita riserva dei colpi crudeli») e con la saga di Lemony Snicket. L’inclusione di tali eventi irreversibili e spesso infelici aveva lo scopo di abituare i lettori più piccoli agli aspetti meno piacevoli della vita, invitandoli a considerare l’eventualità che non tutto dovesse finire sempre con un “happy ending” o con il ritorno ad una situazione ideale.

Ed è per questo che la più grande licenza che Zemeckis si prende sul testo originale, quella di lasciare il dubbio se effettivamente Pinocchio possa diventare, alla fine della sua avventura, un bambino “vero”, si inserisce nel solco di questa tradizione e apre alla possibilità di accettare il proprio corpo di legno e di abituarsi ad esso. Di accontentarsi di tutto quello che, al di là dell’aspetto umano, si è ottenuto nel proprio percorso di crescita e formazione. E non è un caso che in questo adattamento ci sia un personaggio (assente nel libro e nel film della Walt Disney Productions) che è “Pinocchio” (nel senso collodiano) più di quanto non lo sia il personaggio principale. La burattinaia Fabiana è un Pinocchio che ha già compiuto il suo viaggio, che è stato già deglutito dalla balena (che infatti in questo ennesimo racconto non c’è, assumendo le sembianze di un kraken-kaijū digitale da b-movie apocalittico) e risputato fuori. È il Pinocchio della fiaba di Collodi, che alla fine della storia non si trasformava, ma diventava altro dal legno che rimaneva «appoggiato ad una seggiola», nella consapevolezza che il corpo nuovo e vivo dovesse necessariamente coabitare con quello vecchio, che non spariva magicamente. Laddove ci si poteva aspettare una metamorfosi, un’ulteriore trasformazione del burattino in bambino (come d’altronde avviene nel film Disney del 1940), si assisteva invece ad una separazione, una divisione delle nature. Fabiana è questo: un burattino già divenuto umano, che non ha però abbandonato quella reliquia prodigiosa (ovvero il suo giocattolo Sabina) che prima conteneva la sua anima, ma che ha deciso di averla sempre con sé nelle sue nuove avventure da donna in carne e ossa. Il passato del personaggio rimane avvolto nel mistero, sintetizzato dalla formula «it’s a long story», allo stesso tempo ambigua e auto-sufficiente, che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Il suo atteggiamento è tipico di chi ha già vissuto qualcosa che adesso sta capitando a qualcun altro e tutte le sue interazioni con il protagonista lasciano intendere una conoscenza pregressa di ciò che ancora attende Pinocchio (come nel “saluto finale”, che già rimanda al dopo, nella sicurezza di potersi rincontrare).

Zemeckis gioca costantemente con il dato di fatto che il suo raccontare non possa essere altro che un ri-raccontare, fin dalla prima scena, in cui un grillo parlante off-screen, che proviene da un mondo già familiare allo spettatore, prende il sopravvento su quello on-screen, che si sente immediatamente scalzato, personaggio di una storia già narrata che adesso deve semplicemente re-inscenare. A chi guarda, invece, viene chiesto di cercare, dietro alla sovrabbondante stratificazione digitale, che contiene in sé tutto il tempo che è passato dal 1940 ad oggi, gli indizi di un cinema che fu. La magia primordiale che continua ad esistere al di là di una tridimensionalità che, come il pescecane collodiano, inghiotte il film, senza per questo togliere al pubblico il gusto di affacciarsi alla «gran gola del mostro», arrivare sulla punta della sua bocca spalancata e scorgere da lì «un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna». Come per il gatto di Geppetto o per il gabbiano di nome Sofia, che da elementi digitali posticci diventano personaggi effettivamente utili al racconto una volta che vengono immersi nelle intemperie della narrazione, questo ennesimo remake di Pinocchio è il culmine del tentativo che tiene insieme tutta la più recente filmografia di Zemeckis: quello di infondere la vita nella computer grafica. Fino al punto di accettare il digitale persino nelle sue forme meno raffinate, di riconoscerne la maggiore appetibilità rispetto al reale, di arrendersi alle piattaforme di streaming (il film esce su Disney+) e alla possibilità che i film vengano visti anche su schermi di piccole dimensioni. Per questo, l’immagine scatologica di un Pinocchio coloratissimo in cgi che osserva degli escrementi fumanti, che contempla la materia organica davanti a lui in tutta la sua ripugnanza, è più accettabile sullo schermo di un cellulare che su quello di una sala cinematografica.