Il nuovo film di Andrew Dominik è uno studio disordinato, alienante e spesso ellittico di una donna schiacciata dalla sua immagine massmediatica, ma anche un body horror che spinge lo spettatore a riflettere sulla voracità del proprio sguardo, talmente invasivo da perforare il corpo e arrivare fino alla cervice di Norma Jean per osservarne il feto digitale, galleggiante in un liquido amniotico di computer grafica, che è il simbolo di una gravidanza infeconda ma anche di una vita che esiste solo ipoteticamente, così come solo in potenza è la presenza nel mondo di una persona resa invisibile dal suo doppelgänger in celluloide, quella Marilyn Monroe capace di abitare tutti i formati possibili del cinema (e in questa spiccata capacità c’è forse l’unica concessione, appena suggerita, che Dominik concede al genio attoriale di Monroe). Consumare e usare immagini (preesistenti) può essere l’unico modo per non essere consumati e usati (come puri fruitori) da esse. Ed è per questo che Dominik, riproducendo meticolosamente le immagini che hanno contribuito alla creazione dell’icona Monroe, mette in scena un personaggio che è doppiamente fantasma, proiettato e poi nuovamente rifratto. D’altronde già l’etimo greco di “idolo” comprendeva l’idea del doppio e della menzogna, secondo l’uso che del vocabolo faceva Platone. C’è dunque nell’eidolon un effetto di inganno (apàte): la presenza della persona, ma anche la sua irrimediabile assenza. Blonde è un film che rimette così costantemente in discussione le coordinate di un immaginario basato su dagherrotipi, poster, fotogrammi, poggiando la sua narrazione sulle tante altre inventate prima di essa. Un’operazione per nulla diversa da quanto fatto da Dominik con Chopper o con L’assassinio di Jesse James, entrambi basati su racconti fittizi costruiti attorno alle vite di persone realmente esistite.

Pietra angolare di questo biopic stravolto e dissociato non è infatti una biografia, ma un romanzo, quello di Joyce Carol Oates, che a sua volta si nutriva di altri testi precedenti come After the Fall, opera teatrale firmata da Miller dopo il decesso della moglie Marilyn Monroe, che raccontava di una cantante (e amante) bionda colta in un processo di autodistruzione. L’opera fu accusata all’epoca di infierire su chi aveva già enormemente patito le peggiori umiliazioni e di rompere un patto di intimità e segretezza tra coniugi per appagare il proprio esibizionismo. A leggerle oggi, quelle recensioni così caustiche su After the Fall, che giudicavano la pièce “estenuante” e “volgare”, è impossibile non paragonarle a quelle, altrettanto dure, che vengono rivolte al film di Dominik. Il testo del drammaturgo americano dava voce al suo tentativo di assolversi per la tragica fine di Monroe, rimproverandosi di non essere riuscito a “salvarla”, senza capire che, probabilmente, era (anche) da lui che Norma Jean doveva essere salvata. E non è forse un caso che il pubblico che adesso si scaglia ferocemente contro Blonde sia in qualche modo spinto da una simile “fantasia di protezione”, dal desiderio di strappare Marilyn Monroe dalle grinfie di un film estremamente crudele, che descrive ossessivamente le infinite variazioni dello squallore e della vergogna che si prova per gli abusi ripetutamente subiti. Una fantasia alimentata dall’illusione di conoscere meglio di altri la persona al centro del racconto, di essere capaci davvero di comprenderne il dolore e lo struggimento.

La colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, con il falsetto di Bright Horses che torna insistentemente, sottolinea musicalmente “turning points” che poi non sono mai davvero tali e che riconducono tutto alla paludosa situazione iniziale. Dalla incessante compenetrazione di immagini diverse, à la Jean Vigo, che coprono, nascondono e confondono, emerge alla fine la fissità di un primo piano scioccante e umiliante, che non concede possibilità di fraintendimento. Blonde chiude così gli occhi davanti all’abbaglio che stordisce e confonde (che è il cinema tutto con il suo star system) per mettere in scena le cose per ciò che sono una volta che vengono spogliate del vestito mitizzante che è stato cucito loro addosso (horses are just horses and their manes aren’t full of fire). Marilyn Monroe leggeva James Joyce e lo amava. Forse sulla spiaggia di Long Island, come ipotizzò una volta Antonio Tabucchi, ebbe un’epifania, leggendo di quel flash che, secondo Joyce, era in grado di palesare l’anima delle cose oltre la spessa epidermide che le rivestiva, di consegnare non banalmente l’immagine che il nostro corpo dà di noi, bensì l’immagine che di noi abbiamo nel nostro pensiero. Prima di giungere a proprie spese alla conclusione che sulle immagini, invece, si perde qualsiasi tipo di controllo quando interviene uno sguardo diverso dal nostro.

Dopo un percorso teorico e intellettuale completamente diverso, Blonde arriva alla stessa sovrapposizione cristologica che Pasolini fugacemente accennò ne La Rabbia, quando l’immagine di Monroe veniva accostata al corpo frustato in processione, nel folklore e nell’allucinazione collettiva dei riti paesani. Nel componimento dedicato a quella “bambina sciocca come l’antichità, crudele come il futuro”, letto nel film dalla voce di Giorgio Bassani, il poeta accusava il mondo di averle “insegnato” la sua bellezza, con la conseguenza di avergliela per sempre sottratta. Quella bellezza “sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente”, divenne in quel momento un male senza possibilità di sopravvivenza.

Marilyn Monroe evocava a Pasolini il suo mondo: un volto che aveva la stessa verità di quelli amati fra i mendicanti di colore, le zingare, le figlie dei modesti commercianti. Il film di Andrew Dominik, ed è forse questa la sua più grave mancanza, mette in scena il «pulviscolo d’oro» quando è ormai già sparito, non rivela allo spettatore lo splendore originario prima di essere ridotto a merce e depauperato. Il brano su Marilyn contenuto ne La Rabbia, sicuramente il più lirico e toccante dell’intero film, era incorniciato dallo scoppio della bomba atomica, sotto il cui grande ombrello sembrava collocarsi l’intera storia universale. Anche in quel caso, si tornava a Miller e ad After the Fall, che tanto scalpore fece nell’accostare il tormento interiore dell’autore, il suo senso di colpa per essere sopravvissuto alla morte della ex moglie, all’olocausto, simbolizzato in scena dalla torre di un campo di concentramento. Anche in Blonde sembra esserci una universalizzazione del male, qualcosa di immensamente più grande e apocalittico della vicenda personale. Uno squarcio che apre nuovamente la discussione se anche il cinema debba sentirsi colpevole di continuare ad esistere uccidendo (e ri-uccidendo), perseguitando i cadaveri a cui è sopravvissuto.