Quando Isabel Wilkerson (Aunjanue Ellis-Taylor, nella finzione cinematografica) concepì per la prima volta la premessa ambiziosa e sfaccettata alla base di quello che sarebbe poi diventato l’acclamato saggio “Caste: The Origin of Our Discontents”, i suoi editori si chiedevano se sarebbe effettivamente riuscita a collegare in modo coeso le sue dolorose esperienze private (la perdita, a pochi mesi di distanza, dell’amato marito e di sua madre) con la sua indagine tra secoli, culture e continenti per arrivare alle “origini del male”, ovvero alle radici di quell’odio che nei secoli ha soggiogato, segregato, annichilito, intere popolazioni. Questo è a sua volta lo stesso compito che la sceneggiatrice e regista Ava DuVernay deve adesso affrontare per divulgare le idee di quel libro ad un pubblico ancora più ampio, non limitandosi alla pedanteria didascalica del video-essay, ma rendendo cinematograficamente avvincente l’odissea rivelatrice di Wilkerson, il suo lungo viaggio - fisico e intellettuale - per trovare i giusti riferimenti da inserire nel libro e dare sostegno alle sue intuizioni. DuVernay sceglie una narrazione non lineare: un biopic in cui si innestano fugaci rievocazioni storiche (dallo schiavismo al nazismo) illuminate come i vecchi peplum del secolo scorso, monologhi interiori e conversazioni-interviste che sembrano quasi richiamare il mockumentary (ma che qui sono giustificate da un esile contesto narrativo). Lo scopo è riuscire a suffragare anche emotivamente la tesi di Wilkerson secondo cui non è tanto il concetto di razza ad aver diviso l’umanità, ma il sistema di caste e gerarchie imposte dall’alto: l’India (ancora oggi), il Terzo Reich, gli Stati Uniti.

Attraverso ogni ambiziosa transizione tra l’allora e il presente, così come tra la realtà della storia e gli svolazzi immaginifici, il lavoro del direttore della fotografia Matthew Lloyd e del montatore Spencer Averick conferiscono unità ad un approccio così esplicitamente segmentato, raccogliendo - con i mezzi del cinema - tutti quei pensieri che affollano caoticamente la mente della protagonista. Pensieri che vengono condivisi con lo spettatore, che se ne appassiona come se stesse seguendo le elucubrazioni di un investigatore in un film giallo, in febbrile attesa di scoprire il “colpevole”, ma soprattutto di raggiungere il piacere che si prova quando si arriva alla risoluzione di un enigma con il ragionamento, la logica, l’analisi attenta delle prove sul campo.

Nei panni di Wilkerson, l’attrice candidata all’Oscar per King Richard comunica una gravitas commovente attraverso la quale capiamo che la ricerca della verità in cui si è impegnata va oltre la semplice curiosità professionale, ma è invece alimentata dalla necessità di dare un senso al mondo per comprendere il suo ruolo in esso, ora che le figure di riferimento nella sua vita sono svanite (un personaggio dalle incrollabili convinzioni, ma mosso dalla fragilità e dalla vulnerabilità). Sia che stia dibattendo con altri studiosi del fatto che i funzionari nazisti abbiano preso spunto dalle leggi americane sull’endogamia per teorizzare l’Olocausto o che stia discutendo informalmente delle sue deduzioni con la cugina Marion (una memorabile Niecy Nash-Betts) durante una festa in villa, percepiamo sempre l’urgenza del suo lavoro e le implicazioni personali dello stesso. Il film, infatti, raggiunge il suo apice più toccante nel momento in cui riesce a farci cogliere, attraverso un montaggio di straordinaria finzione, come gli schemi di violenza e sopraffazione si siano riverberati nel tempo e nello spazio. Ma piuttosto che assimilare la consapevolezza appena acquisita sulle cause profonde di questo male pervasivo come prova della nostra sconfitta collettiva, Origin continua a vibrare di un’emozionante fiducia nella conoscenza come il primo passo di speranza verso un nuovo inizio.