Stavolta Pablo Larraín mette in scena l’essenza stessa dell’impunità, il vampiro Pinochet - mai processato per i suoi crimini, quindi “eterno” come un Nosferatu colto nell’imperitura ricerca di una giugulare da azzannare - e la sua lunga scia di sangue che arriva nel presente, in cui il “mostro” è sempre nascosto, lontano dalla scena pubblica ma ancora in grado di uccidere, scannare, violentare. Con questa commedia nera dalle venature horror, con qualche ammiccamento stilistico alla Trilogia del Potere di Aleksandr Sokurov e all’espressionismo tedesco degli anni Venti, il regista riprende il discorso sul Cile contemporaneo interrotto qualche anno fa, attraverso due elementi chiave: il sangue e il suolo (quindi stirpe e patria). Il vampiro diventa così l’immagine più efficace per raccontare in chiave allegorica un nazionalismo violento e oppressivo, figura archetipica che agevola le possibilità satiriche e permette di tracciare improbabili traiettorie storiche.

Quella che all’inizio sembra una farsa attorno all’eredità di Pinochet – non solo politica, ma anche e soprattutto monetaria – diventa ben presto una favola gotica grandguignolesca scandita nei passaggi dalla lama della ghigliottina, con più di un riferimento alla Rivoluzione Francese, da cui la storia prende il via, immaginando un giovanissimo orfano di nome Claude Pinoche, già soldato di Luigi XVI - non a caso il termine “succhiasangue” compariva nel Manifesto degli Enragés - sconvolto dall’efferatezza della ribellione. Stavolta Pinochet non è, come in passato, sfondo e sottotesto invisibile del cinema di Larraín, ma protagonista assoluto, frontale, di una gigantesca metafora fatta film che il regista approfondisce, arricchisce con improbabili backstories, villain e poi, in un grande colpo di scena, anche con una strampalata genealogia che ribalta il senso della storia contemporanea. Conosciamo Pinochet come reazionario dalla natura violenta, criminale ma vigliacco, resuscitato di volta in volta al fianco di qualche tiranno della Storia con lo scopo di soffocare ogni nuovo tentativo di rivoluzione popolare.

Nonostante ciò, sarebbe difficile affermare che Pinochet sia il punto di caduta unico e assoluto di questo film. Lo sono infatti ancora più di lui i suoi famigliari e i suoi eredi, vittime di costanti umiliazioni, parassiti che aspettano di raccogliere senza sforzo alcuno la ricca eredità, conquistata con la forza, che il loro padre ha accumulato quando era al potere. Nel comporre la variegata “corte” che macabramente danza attorno al corpo ormai indebolito di un vecchio dittatore decrepito, Larraín chiama a raccolta molti degli attori e delle attrici con cui aveva già lavorato in passato, rievocando - anche nei ruoli rigidamente assegnati - la sua precedente filmografia, come in una seduta spiritica. Troviamo lo sfingeo Alfredo Castro di Tony Manero e Post Mortem, nei figli sciatti riconosciamo i residui della dittatura de Il Club, nella figura stessa di Pinochet ritroviamo il gioco di camuffamenti di Neruda, nella suora sorridente la stessa inafferrabilità di Ema, quella della giovane donna che rilegge il passato fuori da ogni ideologia. Figure che servono, forse anche troppo facilmente, a rendere la figura dell’anziano dittatore persino meno sgradevole di tutta la cerchia di personaggi che gli ruotano attorno, ognuno con diverse ma ugualmente deprecabili intenzioni.

È proprio Paula Luchsinger (già nel cast di Ema, appunto) l’elemento terzo del racconto, inizialmente estranea ai fatti e semplice osservatrice: attrice straordinaria e dal volto insolito, allo stesso tempo gentile e feroce, che riesce a caratterizzare benissimo questa candida suora-commercialista che arriva in casa di Pinochet con la scusa di mettere ordine tra le diverse carte e ricostruire il vastissimo patrimonio del Conde, rivelando ben presto una sadica eccitazione nell’interrogare, provocare, mettere sotto torchio i suoi malcapitati interlocutori. È un’altra forma di potere, quello ecclesiastico, non meno inquietante, che cerca di imporre la propria egemonia. A lei è affidata una frase che sembra sintetizzare moltissimi dei personaggi che hanno affollato la filmografia di Larraín in questi anni: persone che vogliono “vivere con il diavolo, toccarlo e farsi toccare, per poterlo umiliare di fronte ai suoi occhi”. Non tanto “curato di campagna” di bressoniana memoria, ma curatrice fallimentare di un’industria di morte che ancora oggi continua a immettere sul mercato i suoi prodotti tossici e inquinanti.