Si chiude con i cinque migliori film dell’anno la retrospettiva di Stranger Than Cinema dedicata ai migliori lavori cinematografici del 2018. In questa classifica (che classifica non è, non essendoci ordine di preferenza) non sono citati film bellissimi di cui si è già parlato in abbondanza e di cui abbiamo già ampiamente scritto (La Forma dell’acqua, Il Filo Nascosto, Chiamami col tuo nome) per lasciare spazio ad altri titoli.
Sul sito potete anche leggere dei cinque migliori film del 2018 che (forse) non avete ancora visto, dei cinque migliori film animati e dei cinque film da rivalutare.
First Reformed - Paul Schrader
Schrader rifà Bresson, ne riprende l’aspect ratio (1:37:1) e ne segue i passi con religiosa devozione, chiedendo a chi guarda di compiere lo sforzo più grande possibile: quello di credere nelle immagini con uguale convinzione. Anche a quelle meno credibili, in cui i corpi si alzano in volo sul green screen. Quella di Paul Schrader è un’opera sull’accumulazione di emozioni e dolori che prima o poi si riverseranno sul personaggio principale come una valanga impossibile da fermare, alla quale si associa un processo di scarnificazione che spoglia man mano le immagini sino ad inquadrare l’essenziale. Le tre fasi che compongono il film sono quelle classiche del cinema di Ozu, in cui l’ordinario subisce una scissione che lo rompe per arrivare alla fine ad una visione immobile con la quale superare la divisione senza però risolverla. Come nel cinema del giapponese o ancora in quello di Dreyer, la composizione delle immagini è rigorosa e regolare la loro successione. Se la narrazione procede per “semi immagini”, quelle di cui parlava proprio Bresson, è chiaro che saranno le scene che annunciano gli snodi principali le uniche ad avere un valore di per sé, senza inserirsi per forza in una sequenza più ampia. La violenza degli uomini sulla loro casa comune (ovvero il mondo) diverrà prima lacerazione del corpo (che è la casa dell’anima) e poi disgregazione, di per sé irreversibile, del mezzo filmico. La sua fine improvvisa con una immagine che cessa di rendersi visibile in maniera brusca. Non c’è quel “mandala” che Schrader indicava nel suo libro come una delle conclusioni possibili per il cinema che fugge dalla narrazione canonica (l’immagine fissa che induce ad una riflessione) perché alla fine non rimane quasi nulla da osservare e da analizzare. Anche le immagini esauriscono il loro ruolo e allora il processo di decodifica non deve avvenire più fuori da sé, non su quello che vediamo ma su quello che siamo. First Reformed è un’opera che si rifà alla raffigurazione sacra, si sviluppa nelle due dimensioni e diviene icona, immagine bressoniana che ha il suo senso nella rarefazione. “Tout est grâce”, come nel Journal d’un curé de campagne.
Il gioco delle coppie - Olivier Assayas
Sia che si parli di apparizioni paranormali come quelle di Personal Shopper, che si proponeva al pubblico con immagini false che rivelavano la finzione della narrazione, sia che invece si parli di persone normali che fanno cose ordinarie, Olivier Assayas cerca sempre il modo di svelare a chi guarda l’origine ingannevole dei suoi film. Essendo quindi un cinema che parla di sé, anche i numerosi dialoghi verbosi ne Il gioco delle coppie sulla reale urgenza di passare dai libri agli e-book non sono che un modo per parlare di ciò che il cinema è oggi, sempre meno riconducibile all’esperienza del grande schermo, ma invece “consumabile” anche sui cellulari (che se nella sua opera di due anni fa erano un modo per sedurre ma anche per fare paura, qui sono invece il mezzo per il quale si fruisce di ogni cosa). I film di Assayas non vogliono mai affermare una convinzione, bensì indagare qualcosa lasciando che siano le discussioni fra i personaggi (ognuno dei quali incarna un parere diverso) a rendere su schermo problemi che essendo complessi non possono essere risolvibili con la ferrea imposizione di un pensiero univoco. Sono le idee personali dei personaggi a ridisegnare le relazioni che ci sono fra di loro: esporsi con un proprio giudizio vuol dire rivelare qualcosa di sé e di ciò che si pensa delle persone che ci circondano. Proprio come Summer Hours (uno dei suoi capolavori) anche Il gioco delle coppie sembra in apparenza una commedia innocua ma è invece un lavoro di analisi del cinema sul cinema: se nel primo caso ogni oggetto che la madre lasciava ai propri figli dopo il suo addio veniva condiviso con il pubblico perché passava per il mezzo filmico, così nel nuovo film di Assayas il mezzo che il regista usa per narrare la sua vicenda si palesa agli occhi di chi guarda per rendere individuabile la finzione su cui si regge ogni cosa. Il cinema di Assayas è sempre una menzogna, non così diversa da una di quelle che i suoi personaggi si dicono per riuscire a salvare le proprie relazioni in rovina.
Cold War - Pawel Pawlikowski
C’è una canzone dal nome “Dwa serduszka” che è il vero cuore del nuovo lavoro di Pawel Pawlikowski. Quella canzone, che inizialmente verrà proposta al pubblico come una ballata sovietica di origine bucolica per la compagnia di ballo Mazurek, muterà nel corso del film. Tantissimo succederà (e tantissimi anni passeranno) dalla prima versione di quel brano alla sua versione definitiva, eppure il sentimento veicolato dalla musica, nonostante le parole completamente diverse del testo e lo stravolgimento a cui sarà sottoposto l’arrangiamento nel corso del film, sembrerà rimanere lo stesso di quando l’abbiamo ascoltata la prima volta dalla voce di una giovane contadina polacca. Se il bianco e nero del precedente Ida, con le sue sfumature morbide e poco contrastanti, era un bianco e nero estetizzante, adesso quello di Cold War è diegetico, narrativo, quasi prosaico (nel suo significato letterale, senza accezione negativa). Lo capiamo fin dalle prime sequenze, quando il film sembra riprendere le inquadrature tipiche dei filmati della propaganda sovietica, fondata sul mito dei lavoratori e dei contadini nelle campagne, come a voler filmare di nuovo ciò che è già stato filmato (i materiali d’archivio). Man mano che la trama avanzerà, le immagini si caricheranno di lirismo, si faranno più stilizzate e perderanno il taglio documentaristico. Zula si immergerà nell’acqua di un fiume come Ofelia e la cinepresa per la prima volta negherà la sua staticità per seguire la corrente: da quel momento, ogni qualvolta la protagonista femminile entrerà in scena, la regia assumerà una forza cinetica che prima non aveva. La verticalità dei 4:3 permette a Pawlikowski di rendere su schermo i rapporti di scala tra la minuta Zula e l’altissimo Wiktor. La regia gioca con la statura dei due protagonisti e inganna lo spettatore, mostrando enorme la piccola ragazza polacca e ridimensionando il suo amante. Una illusione ottica che trova la sua ragione in un bisogno non così diverso da quello che agita i due personaggi, sempre in costante movimento e mossi dalla necessità di passare da una parte all’altra della Cortina di Ferro per cambiare prospettiva e conquistare un diverso e rinnovato sguardo sulla relazione che li lega.
Dogman - Matteo Garrone
Garrone usa una vicenda di cronaca per inscenare una delle sue ormai classiche “favole”, che si svolgono in luoghi mai decisi per esigenze di verosimiglianza con il mondo che conosciamo, ma per esigenze che è il linguaggio del cinema ad imporre. Dogman quindi prende il via da un episodio di vera violenza, unico per la sua ferocia, ma lo asciuga di ogni possibile apparenza da “crime movie” per soffermarsi solo sulle relazioni umane (universali anche nelle vicende che sembrano a noi meno vicine) che muovono le persone. Una periferia dove regna il nulla, se non fosse per qualche piccolo e squallido negozio dove lavorano i personaggi del film (ogni cosa nel cinema di Garrone c’è solo se funzionale alla descrizione dei personaggi ed al loro percorso). Anche in Dogman è la fisiognomica pasoliniana a scandire l’incedere della narrazione: i corpi cambiano e deperiscono (come già reso chiaro nel suo film fiabesco del 2015, in cui le modificazioni magiche dei corpi evidenziavano i meccanismi del cinema di Garrone prima mai espressi con quella forza). Perciò ogni dolore, ogni sopruso ed ogni violenza lasceranno su “Marcellino” un segno ben visibile sulla sua faccia e sul suo fisico. Prima lo vedremo sollevare delle grosse macchine da gioco ed immergersi da sub nel mare, poi pian piano cominceranno a mancargli sia il vigore che il respiro. Sono i corpi a farsi carico del dolore che i personaggi non possono esprimere a parole, perché incapaci di farlo o perché cercano di nascondere quel dolore a persone che non devono vederlo. Così il lunghissimo primo piano finale (che pare uscire da qualche film di Ceylan) si sofferma sul viso di una persona che per forza di cose non è più quella di prima e che al Marcello della scena iniziale (quello che con amore lava un cane che pure gli ringhia addosso) non assomiglia neanche nelle sembianze. Garrone aggira ogni possibile previsione sulla direzione della narrazione, accompagnando il crescendo di violenza con una regia sempre più sommessa, facendo in modo che la scena più feroce, quella che per logica dovrebbe essere il culmine della vicenda, non dia nessun piacere morboso o senso di soddisfazione, ma abbia invece l’odore dell’insuccesso.
Un affare di famiglia - Hirokazu Kore’eda
Nel suo “Ritratto di famiglia con tempesta” del 2016, Hirokazu Kore’eda costruiva un intero film attorno ad una sola immagine conclusiva, ovvero quella anticipata dal titolo. Un momento apparentemente insignificante se preso singolarmente, ma che assumeva una carica emotiva inedita grazie al lavoro svolto da un regista che voleva consentirci di vedere quell’attimo di vita esattamente come lo vedeva lui. Anche nel suo nuovo Un affare di famiglia si arriverà ad un finale che, se dovessimo giudicare per logica comune e buonsenso, ci porterebbe a condannare senza appello i protagonisti della storia, ma che invece ci appare ingiusto (nonostante non ci sia nulla di davvero sbagliato in quello che avviene) alla luce di quello che Kore’eda ci ha mostrato nel corso del film, spingendoci a provare sentimenti verso i suoi personaggi che sarebbe stato impossibile esprimere senza aver visto ciò che è venuto prima di quella scena. L’apparente genuinità dei protagonisti, che all’inizio sembreranno essere così trasparenti da essere facilmente leggibili senza possibilità di errore, verrà messa in discussione dalle immagini prima ancora che dalla sceneggiatura. Sarà la fotografia a scavare sempre più i volti dei personaggi, delineando una profondità ed una complessità delle cose che chi guarda non può essere in grado di capire davvero prima del finale. E sarà proprio la regia a mostrarci volti che ancora non conosciamo attraverso complessi giochi di immagini speculari, sempre anticipando ciò che poi sarà la storia a chiarire definitivamente. Come spesso avviene nel cinema di Kore’eda, la manipolazione del tempo cinematografico, la sua accelerazione o la sua estrema dilatazione, serve al cineasta giapponese per indicare a chi guarda qual è la relazione che i personaggi hanno con il tempo della loro vita. Anche in Un affare di famiglia diversi mesi saranno racchiusi in ellissi temporali rapidissime, momenti di intimità sembreranno interrompersi prima del previsto ed invece lunghissime riprese di volti che piangono sospenderanno il tempo fino quasi ad immobilizzarlo. La forza del cinema di Kore’eda sta quindi nella scelta di non costringere mai lo spettatore a comprendere i personaggi che osserva (che generalmente compiono le scelte più sbagliate anche se mossi dai sentimenti più cristallini) ma di lasciare invece a chi guarda la libertà di aderire gradualmente e naturalmente al loro punto di vista.
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