Per tirare le somme dell’anno cinematografico che si è ormai concluso, Stranger Than Cinema propone una serie di articoli, che saranno pubblicati dalla fine di dicembre fino agli inizi di gennaio, dedicati ai migliori film usciti nel 2018. Questi andranno a riempire man mano l’omonima sezione del blog.

Il primo pezzo per il “Il meglio del 2018” è dedicato ai film che (forse) vi siete persi durante il corso dell’anno. La “classifica” (che tale non è, dato che non c’è un ordine di gradimento) è determinata da gusto e sensibilità personali. I film presi in considerazione sono quelli effettivamente arrivati in sala nel nostro Paese (o al massimo direct to video) durante l’anno.

Senza lasciare traccia - Debra Granik

I due personaggi del nuovo film di Debra Granik sembrano esistere solo nel loro presente, perché non hanno un passato (che cercano faticosamente di dimenticare, come fa il padre della protagonista) o perché condannati a non avere un futuro (come la giovane ragazza, a cui è stato insegnato a vivere in un ordine sociale che non esiste davvero e che morirà con chi lo ha creato). L’isolamento di cui narra il film non è frutto di una scelta dettata dalla “superiorità morale” di voler vivere nella natura per fuggire dalla società industriale e non è qualcosa di idilliaco in cui sperare, come avveniva ad esempio in Captain Fantastic di Matt Ross. Il personaggio di Ben Foster non riesce a pensare se stesso assieme agli altri e la decisione di allontanarsi da tutti (e di far vivere così anche sua figlia) non conduce ad una vera felicità, ma piuttosto ad una precaria serenità possibile solo nella solitudine. Eppure questo film che parla di emarginazione si basa invece sulla collettività: quella fra gruppi di persone che possono vivere (e sopravvivere) solo se capaci di stare insieme e quella più totalizzante dello Stato, il quale non si inserisce nel film per spezzare il sogno utopico di un padre, ma per proporre soluzioni adeguate alle esigenze della figlia che forse non vuole vivere nello stesso mondo e nella stessa realtà del suo genitore. “The same thing that’s wrong with you isn’t wrong with me”.

Ex Libris - Frederick Wiseman

Quello che emerge dai documentari di Frederick Wiseman è sempre il migliore dei mondi possibili. E così anche la New York Public Library del suo ultimo documentario pare un microcosmo perfetto in cui ogni persona che lo abita sembra avere a cuore i valori più nobili e sembra animata dal desiderio più alto, cioè quello di cambiare in meglio la società in cui vive. Tutti i lavoratori di questa enorme istituzione americana, dai funzionari più importanti a chi ordina i volumi sugli scaffali, sembrano non sono felici ma addirittura fieri di svolgere ogni giorno i loro compiti. L’impressione che si ha è che tutto ciò si svolga naturalmente davanti all’obiettivo, come se il regista non facesse altro che posizionare la macchina da presa e riprendere quel che accade. Invece è vero il contrario, cioè che il tutto il cinema di Wiseman si fonda su di uno sguardo particolarissimo attraverso il quale selezionare fra le centinaia di ore di materiale girato solo le scene davvero funzionali alla propria narrazione. L’idealismo contagioso (ma mai esplicito) del maestro americano consente a chi guarda di innamorarsi dei gesti più piccoli, dell’atto stesso del lavorare, della dedizione che ogni persona su schermo sembra mettere nella propria professione. Tutti vengono posti sullo stesso livello: i dirigenti, i visitatori, i turisti, gli insegnanti e persino le star che quotidianamente sono protagoniste degli incontri che si svolgono nella biblioteca. Solo nel cinema di Wiseman una grande icona della musica come Elvis Costello può comparire in scena senza alcuna enfasi o presentazione, lasciando al libro che stringe tra le mani il compito di rivelarci la sua identità.

Estate 1993 - Carla Simon Pipó

Quando sua madre muore a causa di complicazioni per l’Aids, Frida deve inserirsi in una nuova famiglia che da un lato vuole prendersene cura ma dall’altro la guarda con un po’ di diffidenza, dovuta al fatto di non sapere nulla di quella malattia e dalla paura infondata di un eventuale contagio. C’è quindi un dramma enorme sullo sfondo del film d’esordio di Carla Simòn che però non emerge mai come angoscia, perché chi dovrebbe provare quel senso di dolore è così ingenuo (data la giovanissima età) da non riuscire ad elaborarlo in maniera razionale. La Simòn posiziona la sua macchina da presa a livello dei suoi piccoli comprimari: anche quando i bambini sono in scena e la regia non sceglie soluzioni in pov, sembra comunque di vedere ogni cosa dai loro occhi. La cinepresa non si alza quasi mai per riprendere i “grandi”, ma lascia che siano loro ad abbassarsi (per parlare con i loro figli, per pulire loro il viso sporco di cibo o per accarezzarli) e a comparire nel campo visivo. Se nelle scene iniziali Frida è ripresa quasi sempre da sola, man mano che il film proseguirà sempre più persone cominceranno ad affacciarsi sullo schermo. La Simòn sceglie di usare scenografie e decorazioni per nascondere (e non invece per evidenziare) quelli che possono essere gli indizi visivi sull’anno in cui si svolge la vicenda. Le lacrime arriveranno in scena solo nella meravigliosa conclusione. Non quelle che si versano dopo che è successo qualcosa di spiacevole, ma quelle che bagnano gli occhi senza una ragione visibile. Eppure la ragione c’è. Frida forse non la conosce ancora. Ma chi guarda sì.

Wind River - Taylor Sheridan

Quello di Taylor Sheridan è un cinema di luoghi. I personaggi dei suoi film non agiscono mai secondo convenienza o esigenza, ma secondo le regole che il luogo in cui vivono impone loro di seguire. L’America di Sheridan è un’America frammentata: persino zone vicinissime fra loro se le si considera in base allo spazio geografico (spesso la sola cosa che le separa è una recinzione o una linea di confine che decorre sul fondo) sono abitate da persone che invece non condividono alcun valore comune e si considerano da sempre nemiche. La neve in Wind River è così bianca che sembra quella de Il grande silenzio di Sergio Corbucci ed è un elemento fondamentale nella narrazione e non solo descrittivo del paesaggio. È nella neve che si svolgono i duelli, come quello de I compari di Robert Altman, e non si muore per i proiettili ma per aver corso troppo a lungo a piedi scalzi. I protagonisti di Wind River non sono quindi importanti per le vicende che li coinvolgono, quanto per svelare a chi guarda le crudeli dinamiche che governano le comunità di confine nelle quali vivono, dove ogni piccolo gesto sembra comportare conseguenze enormi e ben più gravi della causa che le ha innescate. Come nella sua precedente storia di rapinatori di banche con Chris Pine e Ben Foster, che aveva il cuore nelle pagine di Joe R. Lansdale, anche qui la descrizione dell’America profonda che fa questo autore è senza scampo: i ragazzi più giovani rinunciano al college (o all’esercito) per la droga ed i loro padri, spesso violenti e misogini, sono sempre via di casa a lavorare o ad ubriacarsi.

Visages, villages - Agnès Varda e JR

Solo in apparenza documentario, il nuovo film di Agnès Varda è a tutti gli effetti un road movie, genere di cui segue con rigore i meccanismi narrativi. La scelta di adattare il suo viaggio per la Francia rurale ad una dimensione che storicamente appartiene al cinema americano non è casuale: il compagno di strada di Varda (con cui la regista svilupperà un rapporto che andrà evolvendosi durante il percorso, proprio come avviene in questo genere di film) è lo street photographer Jean René, ribattezzatosi JR in onore del protagonista della soap Dallas (un altro simbolo dell’intrattenimento statunitense) e che a quel tipo di concezione dell’arte deve molto. Chi sceglie di salire a bordo del furgoncino del fotografo (che in realtà nasconde un set fotografico al suo interno) entra come persona ed esce come immagine, ritratto in bianco e nero formato poster. Ciò che gli occhi di Agnès Varda non riescono a mettere a fuoco, viene filtrato attraverso lo sguardo del cinema, la cui forza sta nel mostrare ciò che si vede e ciò che invece si nega alla vista. L’immagine più bella del film rimane il pianto della regista nel leggere il biglietto lasciato sull’uscio di casa da Jean-Luc Godard, che inizialmente aveva acconsentito di partecipare al documentario, per poi (prevedibilmente) non farsi trovare. Agnès Varda, in uno scatto di rabbia, arriva a definire un “ratto di fogna” il suo amico e collega della Nouvelle Vague, per poi pentirsi e lasciargli sulla porta dei cornetti. Un gesto che, come tutto il resto del film, riconcilia con il cinema e con i suoi artisti.