Prosegue la retrospettiva di Stranger Than Cinema dedicata ai migliori lavori cinematografici del 2018. Dopo i cinque film che (forse) non avevate ancora visto e i cinque migliori film animati, adesso è il turno dei titoli da rivalutare, ovvero quei film che non hanno ricevuto particolare affetto da parte di critica o pubblico ma che nonostante ciò meriterebbero comunque una visione.

Ore 15.17: Attacco al treno - Clint Eastwood

Alla soglia degli 88 anni, il regista di Gran Torino decide di usare uno stile naïf da piccola opera indipendente per narrare la propria storia, rinunciando alla magniloquenza e lavorando di macchina a mano per inscenare quella che in alcuni momenti sembra la trama di un “coming of age” alla Linklater, che svela il giovanile entusiasmo dei propri personaggi nei loro dialoghi più frivoli e nelle loro interazioni più trascurabili. Eastwood spoglia quelli che saranno gli eroi del suo racconto di qualsivoglia forma di autorevolezza o saggezza, arrivando quasi a prendersene gioco, descrivendo in maniera caricaturale le loro ingenue certezze (in una scena magistrale sarà una guida turistica berlinese a far vacillare la loro convinzione nell’eccezionalismo americano) ed i loro comportamenti più patetici (dai selfie con lo stick al provincialismo di chi visita il mondo per la prima volta sentendosene padrone). Nonostante Ore 15:17 decida di narrare le proprie vicende con uno stile visivo minimale, facendo un uso invisibile degli elementi distintivi del cinema sui quali si reggevano invece i precedenti lavori di Eastwood (il montaggio in American Sniper, la composizione delle immagini in Sully), non si ha mai la sensazione di vedere qualcosa che non sia riconducibile in ogni istante alle forme classiche della cinematografia (ben diverse da quelle del documentario o del reportage giornalistico). Il passato dei protagonisti è proposto in maniera poco verosimile e chiaramente artificiosa, indugiando su profetici corsi di primo soccorso ed ispiratrici lezioni di storia che mai si sono svolti nella realtà nei termini proposti dalla sceneggiatura, ma che servono al regista per scopi puramente narrativi. È proprio sfruttando quelle che sono le regole basilari del cinema (introdurre un elemento in sceneggiatura per recuperarlo solo nel finale, dandogli un senso inedito) che Eastwood mostra ogni istante della vita dei suoi “predestinati” come se questo fosse propedeutico a ciò che dovranno poi fare sul treno. Quella che ci viene proposta è una storia che appare reale per via delle persone che la interpretano, cioè i veri ragazzi che il 21 agosto 2015 sventarono una strage sul treno Amsterdam - Parigi su cui erano a bordo, ma che allo stesso tempo è finta come ogni storia destinata al cinema.

Quello che non so di lei - Roman Polanski

Se le opere di Polanski sembrano spesso aderire ad un genere che si rivela poi essere qualcosa di diverso, così quello che si propone come un comune film di suspense, con qualcosa di inconfessabile da scoprire, non crea angoscia per ciò che i personaggi si nascondono a vicenda, bensì per quello che celano a loro stessi. Nelle pieghe del nuovo (e poco godibile) lavoro di Polanski sembra esserci un “film nascosto” che vorrebbe rivelarsi, proprio come il “libro nascosto” che Emmanuelle Seigner (Delphine) cova da anni e che Eva Green (Elle) spera di rubarle dal cuore. Ad assumere un ruolo principale nella genesi della nuova opera polanskiana, è Olivier Assayas, erede proprio di quel modo di fare cinema, obliquo ed ambiguo, che ha i suoi modelli originali in Repulsion e Cul-de-sac. Rielaborando il romanzo di Delphine de Vigan per dargli forma consona per il grande schermo, Assayas, proprio come avviene per Elle con Delphine, si è messo al servizio del suo amico, aderendo a quelle che erano le sue indicazioni e dipendendo dalle sue esigenze. Ma se Assayas sembra scomparire nel suo lavoro per Polanski, così Polanski sembra dirigere il lavoro di Assayas senza rendersi riconoscibile. Scegliendo di nascondersi in un primitivismo artistico quasi anonimo, il prolifico 84enne polacco si serve di una regia invisibile (un unicum per uno dei geni della mise-en-scène) che nella visione frontale dei suoi personaggi trova la sintesi di uno sguardo che osserva il soggetto dalle varie angolazioni. Quello che non so di lei non é quindi un lavoro piacevole o in grado di appassionare, ma una operazione teorica e cerebrale che raggiunge il suo scopo nella negazione delle immagini e nella affermazione di una egemonia della sceneggiatura sulla sua figurazione visiva. Egemonia messa in discussione solo dalle brevissime sequenze (pochi secondi su quasi due ore di film) in cui la mano di Polanski si rende di nuovo visibile, ribaltando il rapporto di forza tra regia e scrittura, per riconoscere alla rappresentazione un primato sul testo che le era stato fino a quel momento negato.

L’uomo che uccise Don Chisciotte - Terry Gilliam

“Nobody expects the spanish inquisition”. C’è infatti anche l’inquisizione spagnola nel nuovo lavoro di Terry Gilliam, opera “maledetta” la cui lavorazione è cominciata quasi 25 anni fa per poi essere sospesa innumerevoli volte. Il viaggio narrato nel film, quello di un attore convinto di essere Don Chisciotte e del suo improbabile Sancho Panza, è per l’appunto un viaggio che sembra essere sempre sul punto di cominciare ma che, per un motivo o per un altro, non comincerà mai. Nonostante la sceneggiatura sia rimasta sostanzialmente quella originale, la trama dell’ultima follia di Gilliam sembra riflettere paradossalmente tutte le problematiche che hanno afflitto la sua produzione. Gli eventi narrati ne L’uomo che uccise Don Chisciotte ruotano attorno ad un lungometraggio sul personaggio di Miguel de Cervantes, realizzato dieci anni prima della storia che ci viene raccontata, che ha rovinato la vita a tute le persone coinvolte nella sua realizzazione: al regista, che da quel giorno non trova più l’ispirazione, all’attore protagonista, condotto alla follia, e persino ad una ragazza che assisteva alle riprese, che voleva diventare attrice e che invece si ritrova a fare la escort. Terry Gilliam inserisce a più livelli nella narrazione una sfilza di personaggi che vivono, proprio come Don Chisciotte, in una realtà che si sono fabbricati per loro. Chi lo ha fatto per necessità (come i clandestini organizzati in una comunità segreta ed isolata dal mondo per sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine) e chi invece ha deciso di credere ad una fantasia per nascondere a se stesso i risvolti più dolorosi della sua vita privata (un padre che inscena il funerale della figlia, in realtà scappata di casa, o un imprenditore che finge di non vedere i continui tradimenti della moglie). Ma ne L’uomo che uccise Don Chisciotte ci sono anche i ricchi capitalisti (una classe sociale che è storicamente autoreferenziale e sembra vivere in una bolla di benessere che non tiene conto dei problemi del mondo reale) e i religiosi (persone che ogni giorno rinnovano la loro fede attraverso messe in scene folcloristiche e teatrali). Il Don Chisciotte di Terry Gilliam non nacque per “speciale volere del cielo” come quello del romanzo ma per “speciale volere del cinema”.

Millennium: Quello che non uccide - Fede Álvarez

Per azzerare di nuovo una “non-saga” cinematografica come quella di Millennium (che prese il via anni fa con una serie di film svedesi dallo scarso successo e poi arrivò ad Hollywood nelle mani di David Fincher) ci voleva un regista di incredibile minimalismo come Fede Álvarez, che già con il remake de La Casa e poi con Man In The Dark aveva dimostrato una abilità senza pari nell’asciugare la propria narrazione eliminando tutti gli orpelli superflui. Se la messa in scena di Fincher era carica e barocca, quella di Álvarez si nasconde agli occhi dello spettatore e diviene funzionale alla rapidità del film. Il giovane uruguaiano applica quindi ad un franchise da sempre di serie A (grande budget e grande cast) un trattamento che è invece quello tipico dei film di serie B, realizzando un capitolo meno introspettivo ma invece concentrato sugli eventi, che per la prima volta vengono presentati al pubblico in maniera immediata e comprensibile. Così anche la protagonista Lisbeth Salander, che negli altri episodi era il fulcro di tutta la storia, in Quello che non uccide non è che uno dei tanti personaggi: ciò che vale davvero è l’intreccio. Eppure proprio grazie a questa aderenza ai meccanismi narrativi del genere, il film di Álvarez sembra regalare a Claire Foy (più gotica, quasi sensuale, e non “sventrata” della propria femminilità come invece Noomi Rapace e Rooney Mara prima di lei) i momenti migliori. Ci voleva quindi un lavoro di sottrazione per arrivare al cuore dei libri di Stieg Larsson e svelare finalmente cosa ci fosse di così interessante in quei racconti cupissimi e senza speranza.

Mektoub, My Love: Canto Uno - Abdellatif Kechiche

Sono gli sguardi che si cercano ed i minuscoli cenni del capo a suggerire cose che le parole non riuscirebbero a spiegare con eguale efficacia. L’occhio di Kechiche non si muove dai corpi dei giovani di cui narra: nega panoramiche e campi lunghi, riduce ogni scena a primi piani e piani americani, riuscendo ad inquadrare per 3 lunghe ore di film quasi sempre e solo i suoi personaggi, da cui non si separa mai. I personaggi del film vogliono piacere e si piacciono. Nessuno di loro sembra in grado di sfuggire al richiamo che proviene dalle persone che li circondano (persino lo zio, che con il suo modo di fare sgradevole crea noia ed imbarazzo, non viene escluso dal giro di avance) se non per il personaggio principale, quello di Amin, che non gode mai delle bellezze che gli passano vicino e che a lui si offrono senza giri di parole. Il ragazzo osserva con separazione (il film si apre non a caso con una scena di voyeurismo) le azioni dei suoi amici. Però ciò che avviene su schermo passa sempre prima dai suoi occhi, non può arrivare a noi senza la mediazione del suo sguardo che, proprio come il cinema, solo in apparenza riproduce il reale, ma invece ci rende ciò che per forza di cose non è che la conseguenza di una elaborazione personale. Lo sguardo non è più sul singolo, come avveniva ne La vie d’Adèle, dove si narrava di una ragazza in un passaggio unico della sua adolescenza, ma si allarga alla razza umana ed evolve in un discorso sulla esigenza di soddisfare le pulsioni più basse per vivere e sopravvivere (il cibo nel film di Kechiche non è secondario al sesso, come sa bene chi lo segue dagli anni di Cous Cous). I ragazzi di Kechiche non fanno nulla affinché il pubblico si affezioni a loro e le scorribande che li coinvolgono non sono né memorabili né speciali. Così chi guarda prova le medesime sensazioni di piacere di quei personaggi che prima compaiono e poi spariscono dallo schermo: frivole e di poca rilevanza, eppure cariche di giovanile energia e gioiosa esuberanza.