Per tirare le somme dell’anno cinematografico che si è ormai concluso, Stranger Than Cinema propone una serie di articoli che saranno pubblicati progressivamente sino al termine della seconda settimana di gennaio, dedicati ai migliori film usciti nel 2017. Questi andranno a riempire man mano l’omonima sezione del blog.

Il primo pezzo per il "Il meglio del 2017" è dedicato ai film che più di altri sono entrati nel cuore di chi scrive. La "classifica" (che tale non è, dato che non c’è un ordine di gradimento) è determinata da gusto e sensibilità personali. Quindi, anche se non troverete La La Land o Dunkirk, tenete a freno i bollori, perchè non significa che questi ultimi siano meno meritevoli di quelli elencati. Lo scopo di questa retrospettiva è anche quello di suggerire titoli magari meno conosciuti. I film presi in considerazione sono quelli effettivamente arrivati in sala nel nostro Paese (o al massimo direct to video) durante l’anno.

Billy Lynn: Un giorno da eroe - Ang Lee

Il taiwanese Ang Lee con Billy Lynn - Un giorno da eroe tocca due argomenti che sono stati recentemente esplorati dal cinema ideologico di Clint Eastwood: c’è il percorso di un reduce di guerra che cerca di tornare alla normalità, come quello di American Sniper, ma anche il discorso sul dualismo tra una persona e la sua immagine pubblica mediata da radio e televisioni, che era invece il fulcro di Sully. Billy Lynn, spogliato da qualsivoglia retorica, è un lavoro talmente strano, sgraziato e fuori da ogni canone che è davvero impossibile non volergli almeno un po’ di bene per il costante tentativo di porre al centro di ogni cosa i personaggi ed i loro sentimenti. Così il comandante americano Vin Diesel, che dice “Ti amo” ai suoi soldati prima di andare in missione, non è un esempio di sterile patriottismo quanto di quell’umanesimo che era proprio del cinema di John Ford. E persino la giovane ed avvenente cheerleader, che si innamora del protagonista e del suo corpo marmoreo, mostra una giovanile pulsione erotica che è tra le cose più tenere e sincere messe in scena di recente sul grande schermo. Ang Lee decide di girare per la prima volta nella storia in 120 frame al secondo con telecamere 3D, con lo scopo di inseguire l’iper-realismo, ma applica questa tecnologia avanzatissima ad un’opera dai ritmi compassati e che fugge in ogni maniera la spettacolarizzazione.

Good Time - Benny e Josh Safdie

Pur prendendo il via dai classici cliché del cinema d’azione, con una rapina che finisce con l’arrivo della polizia ed il conseguente arresto di uno dei due fratelli rapinatori, Good Time mescola elementi stranoti per creare qualcosa di personale nello stile e nei toni. I Safdie bros. usano la musica elettronica come farebbe Refn, da cui rubano in alcuni momenti anche il gusto per l’estetica al neon, ma fuggono dalla geometria delle composizioni per riprendere ogni cosa con telecamera a spalla ed inquadrature senza respiro. Scrivono una storia di imprevisti ed equivoci che sembra quella comica di Burn after reading, costruendo una successione di tentativi maldestri di un improbabile ladro che cerca di liberare un complice persino meno credibile di lui, ma la girano come se fosse una storia davvero seria e tragica. Se S. Craig Zahler, il regista di Bone Tomahawk e Brawl in Cell Block 99, è stato spesso definito come un Tarantino senza il gusto per il pulp e la citazione, così i fratelli Safdie sembrano i fratelli Coen senza ironia e gusto per la comicità. Eppure al termine di questa storia densissima si percepisce lo stesso senso di amarezza e di sconfitta. La grande idea di Good Time sta nel mostrare quali sono gli esiti di una rapina eseguita in assenza di pianificazione, decostruendo il genere e narrando questo poliziesco quasi esclusivamente con scene chiave, senza che ci sia davvero un raccordo tra esse o una chiara metodica a muovere le azioni del protagonista.

Madre! - Darren Aronofsky

Aronofsky con Madre! prende un filone specifico del genere horror, in questo caso quello della home invasion, per cambiarne codici e regole, declinandolo in maniera unica e che in nessun modo si può accostare al cinema di orrore come comunemente lo intendiamo. Il regista americano decide di usare i cliché di quel genere, dalle porte che scricchiolano ai rumori improvvisi di oggetti che cadono senza motivo apparente, per creare una storia che è allegoria della Bibbia. Inscenando il film nel microcosmo di una casa che è il pianeta Terra, Aronofsky passa dal Vecchio al Nuovo Testamento, mostrando sia il diluvio universale, rappresentato da un lavandino che comincia a perdere acqua, che la contemporaneità legata al terrorismo in una sequenza magistrale da antologia del cinema. È un lavoro sicuramente claudicante, arrogante e poco equilibrato, che in alcuni frangenti sfocia persino nella ilarità involontaria. Ma al contrario di The Killing of a Sacred Deer di Lanthimos, che declinava egualmente in chiave autoriale formule proprie di cinema considerato di serie b, in Madre! si percepisce davvero la volontà di narrare qualcosa di immensamente grande in maniera nuova e deliberatamente derisoria delle attese del pubblico, orchestrando un racconto soverchiante e destabilizzante della razza umana e della sua tendenza ad autodistruggersi. In tempi in cui ci si lamenta sempre di vedere le stesse storie, Madre! dimostra che esiste ancora gente disposta ad investire in qualcosa di così delirante solo per passione e testardaggine, dal regista agli attori, famosi ed affermati e che non avrebbero avuto problemi a rifiutare il ruolo.

On the Milky Road - Emir Kusturica

Il cinema di Emir Kusturica da sempre corrisponde al caos: una gioiosa cacofonia di colori, suoni, urla e schiamazzi che è una celebrazione dell’esistenza umana nelle sue manifestazioni meno pudiche e più corporali. Per questo la “milky road” del regista serbo non è quella del misticismo di Luis Buñuel ma una strada vera e propria che il protagonista percorre ogni giorno sul suo somaro per trasportare le razioni dalla fattoria ai soldati in trincea. Così in questo film dove ogni passo ed ogni caduta fanno più rumore di quanto non lo farebbero nella realtà, la guerra si inserisce con il suo carico di scoppi, rombi e fragore. Persino un gregge di pecore salterà in aria correndo all’impazzata in un campo pieno di mine in una scena che ricorda da vicino quella delle pecore che si lanciano giù dal burrone nelle pagine di Via dalla pazza folla di Thomas Hardy. La guerra quindi squarcia questa realtà bucolica mostrandosi ancora di più come qualcosa di disumano e contro natura. Ma persino la morte, che Kusturica mostra anche nelle sue più truculente espressioni, non è mai davvero un evento tragico ma una variazione nell’energia cinetica della storia a cui i personaggi reagiscono muovendosi ancora più velocemente e caoticamente di prima.

Loveless - Andrej Zvjagincev

Già con Leviathan, che parlava di una crisi domestica causata dall’esproprio di un immobile, emergeva la maniera unica del russo Zvjagincev di narrare il disfacimento di famiglie senza mostrare i sentimenti più profondi che animano le decisioni dei parenti ma analizzando analiticamente le procedure burocratiche che questi devono seguire per raggiungere il loro scopo. Così anche Loveless è la storia di un bambino che scappa di casa e scompare, ma narrata mostrando passo dopo passo quello che due genitori russi dovrebbero fare in situazioni come queste: illustrando a chi dovrebbero rivolgersi, quali informazioni dovrebbero fornire agli inquirenti e così via. Persino le indagini non sono appassionanti come quelle di un giallo o di un thriller ma esposte nella loro prassi. Però la grandiosità di Loveless sta nel lavorare nel cuore di chi guarda senza farsene accorgere se non alla fine, quando al culmine di questa storia disumana ciò che si è sedimentato sale in superficie e si comprendono le conseguenze di una vicenda che non è basata sull’azione dei propri personaggi quanto sulla loro propensione a non agire mai. E quel sentimento di menefreghismo verso le sorti del proprio figlio, che tanto vale mandare in collegio per non doversi più prendere cura di lui, verso la conclusione diverrà indifferenza patologica ed endemica verso ogni cosa, anche verso i massacri che vengono raccontati in televisione e che si ascolta stando sdraiati sul divano con l’aria annoiata sul viso. La scena del bambino che, nascosto dietro la porta del bagno, piange di un pianto disperato ma silenzioso, per non farsi sentire dai due genitori che parlano in maniera atroce del suo futuro, resta una delle immagini cinematograficamente più forti di questo 2017 ormai conclusosi.