Il cinema di Yorgos Lanthimos è sempre stato in qualche modo vicino a quello di Haneke nel suo assunto di partenza: raccontare storie che si svolgono in un ambiente rigido e dalle regole ferree, nelle quali entra in gioco un elemento di disordine che da dentro distrugge le certezze dei personaggi spingendoli a compiere azioni che mai avrebbero pensato di poter compiere. Ma dalla pretenziosa scena iniziale a schermo nero con la musica di Schubert, è chiaro che invece sul piano visivo il modello di The Killing of a Sacred Deer sia quello di Kubrick, con carrelli e movimenti di macchina sempre arditi ed inquadrature dalle angolazioni più inusuali, spesso deformate col grandangolo.

Al di là di questo manierismo esasperato ma certamente impeccabile, per il quale non esiste una scena o una composizione sbagliata, c'è però una sceneggiatura furba ed una consapevolezza acquisita che sembra sfociare nella più compiaciuta arroganza (cosa che può essere anche vantaggiosa se accompagnata da una buona dose di coraggio e voglia di cambiamento). Eppure il regista greco si pone nella posizione più comoda con un lavoro dalle simmetrie quasi geometriche, non solo nelle immagini ma persino nei rapporti famigliari che si vengono man mano a delineare, che non si prende rischi ed inciampa su snodi narrativi poco convincenti. Lanthimos disprezza i suoi personaggi, per questo non solo li condanna con estremo sadismo ma gode nel mostrare il loro castigo.

Non emerge mai davvero la volontà di inscenare una tragedia greca, sullo stampo di quella euripidea del "sacro cervo" di Agamennone ed Artemide, adeguandola alle regole della società contemporanea, ma solo un revenge movie che pur essendo ben orchestrato non è mai fonte di stimoli e suggestioni ma solo di reazioni effimere e contingenti (a voler nominare Collingwood parleremmo di "arte ricreativa", che mira esclusivamente alla risposta immediata di chi guarda). Le ambizioni di Lanthimos sembrano quindi essersi ridimensionate ma, come ogni cambiamento, anche questo può essere giudicato come meglio si crede, anche perché è arduo parlare in maniera categoricamente negativa di un lavoro che segue comunque una costruzione chirurgica della trama ed una direzione artistica maniacale.

Lanthimos non scava in profondità, così The Killing of a Sacred Deer resta un banale (per quanto ben orchestrato) revenge movie

Però The Killing of a Sacred Deer non è cinema allegorico come quello di Aronofsky o di von Trier né cinema antropologico e sociale come quello del maestro austriaco nominato in apertura. Paradossalmente questa superficialità (insieme ad un cast comunque stratosferico su cui spicca Barry Keoghan) rende The Killing of a Sacred Deer il lavoro più commerciale del regista greco e potenzialmente in grado di conquistare consensi al di fuori dei circuiti festivalieri. Ma questo, a voler essere onesti, non è rassicurante.

Perché Dogtooth, Alps o The Lobster erano opere che, pur nella loro evidente imperfezione, avevano qualcosa da dire e si sforzavano di dire quel qualcosa secondo forme mai scontate. Così Lanthimos sembrava un cineasta ancora in cerca della sua strada ma ad un passo dalla consacrazione. Invece adesso la strada che sembra voler percorrere con il suo cinema pare davvero chiara. Ed è la più facile e la più banale.