È maggio 1989 quando arriva nelle sale cinematografiche americane il film Fa’ la cosa giusta di Spike Lee. Un anno dopo W. J. T. Mitchell pubblica un celebre saggio dal titolo “The Violence of Public Art”. Ma se il film di Lee diviene di pubblico dominio (non solo inteso come film distribuito in sala e quindi visibile dal pubblico, ma come film il cui contenuto si rivela oggetto di discussione pubblica) lo si deve al gesto che il giovane protagonista compie sul finale. La distruzione della pizzeria del “bianco” Sal è motivo di pesanti critiche, di accuse di incitamento alla violenza e all’insubordinazione. Il film viene escluso dalla corsa agli Oscar per quell’azione, per quel momento in cui il giovane afroamericano Mookie afferra un bidone della spazzatura, lo scaglia contro la vetrina della pizzeria, mandandola in frantumi, scatenando così la violenza dei presenti, che entrano nel negozio per incendiarlo. Un gesto “brechtiano”, il cui scopo è “suscitare un atteggiamento analitico e critico rispetto ai fatti rappresentati” (definizione di straniamento secondo Brecht). L’attore brechtiano esprime nell’azione che sta compiendo la possibilità di una seconda azione, contraria alla prima, che non viene compiuta. Così “il lancio del bidone” di Mookie afferma qualcosa e contemporaneamente disdice quello che sta dicendo. In quell’azione c’è la tesi del film espressa nel titolo (Fa’ la cosa giusta) e la sua confutazione. Non a caso il film di Spike Lee si conclude con due citazioni speculari sulla non-violenza e sulla violenza come mezzo di resistenza. Quella di Martin Luther King (Violence as a way of achieving racial justice is both impractical and immoral) e quella di Malcolm X (I don’t advocate violence, but at the same time I am not against using violence in self-defense. I don't even call it violence when it's self- defense, I call it intelligence).

E non a caso I Miserabili, fulminante esordio di Ladj Ly, candidato agli Oscar come miglior film internazionale, si chiude invece con una sola citazione, ovviamente di Victor Hugo: Remember this, my friends, there are no such things as bad plants or bad men. There are only bad cultivators. Così il riferimento letterario del titolo trova una giustificazione semantica e non solo spaziale (la vicenda si svolge nel quartiere di Cherbourg, lo stesso del romanzo pubblicato nel 1862). Ladj Ly sceglie (ma è una scelta più ideologica che cinematografica) di non mostrare il gesto finale. Non scaglia il bidone dell’immondizia (o la molotov). Ma non essendoci tesi, non può esserci antitesi. Con una dissolvenza non chiude la vicenda, fa del suo film un ordigno inesploso, l’innesco senza detonazione.

Eppure fin dai primi minuti del film sembra che Ladj Ly, prima ancora che lo spettatore, non aspetti altro che uno sparo nella direzione sbagliata. Fa navigare i propri personaggi in un lago di benzina nell’attesa che il primo mozzicone di sigaretta gettato via senza cautela faccia divampare le fiamme. L’incipit è classico: un novellino al suo primo giorno di servizio viene condotto dai suoi due colleghi più scafati (quindi ovviamente più disillusi e meno idealisti di lui) tra le strade del quartiere nel quale dovrà lavorare. Lui, Stéphane, sembra ancora agire secondo le regole apprese in accademia, gli altri due, Chris e Gwada, pensano che la lunga esperienza sul campo li affranchi da determinati “rituali”. La divisa basta da sola per giustificare determinate azioni (ma è una divisa solo teorica, dal momento che nessuno di loro la indossa perché “tutti nel quartiere sanno che sono sbirri”). Ogni incontro che fanno i tre è un conflitto, potenziale o effettivamente espresso, verbale o fisico. Tutto sembra far presagire il peggio. D’altronde anche la temperatura è quella meno adatta ad una giornata tranquilla: 30 gradi. Cinque gradi in più e la gente rimarrebbe in casa con l’aria condizionata a riposare sul divano. Cinque gradi in meno e sarebbe una comune giornata primaverile. Ma con 30 gradi la gente si riversa in strada e le “teste si scaldano facilmente”.

Ladj Ly sceglie un punto di osservazione. Lo spettatore sta con i poliziotti e non con i giovani ladri di polli (o meglio, leoni) a cui danno la caccia. Partecipa ai loro problemi, ma allo stesso tempo è respinto dai loro atteggiamenti. Le figure che popolano il quartiere sono realistiche (il regista viene da esperienze nel documentario) ma abbastanza fumose per essere archetipi da cinema di genere (poliziotti violenti, reclute, ras di quartiere, scugnizzi, madri sole che crescono famiglie numerose). I Miserabili in questo senso non sbaglia nulla: ha le facce giuste, il ritmo perfetto, trae piacere dall’attesa di un dialogo a lungo rimandato, che quando arriva ha i tempi corretti. Ladj Ly sa bene che basterebbe sbagliare un indumento o un taglio di capelli per mettere a repentaglio la riuscita del film.

Come si spiega allora il rifiuto del gesto brechtiano sul finale? Dopo aver esplorato ogni angolo del quartiere e battuto ogni metro delle sue strade, la rivolta si svolge nel chiuso di un condominio, inevitabilmente “compressa”. Non c’è la pizzeria di Sal (o il negozio di kebab di Salah) da mandare in fiamme: nessun luogo “aperto al pubblico”. Ma una proprietà privata che tra le sue mura nasconde una violenza forse destinata a rimanere lì per sempre. Sconosciuta fuori. Deflagrata ma contenuta (tenuta in sé). E se il film di Spike Lee nel 1989 divenne “public art” decidendo di mostrare, può I Miserabili di Ladj Ly generare un dibattito pubblico con la decisione opposta?