Leo Sharp, prima di diventare un corriere per il cartello della droga di Sinaloa, era diventato discretamente famoso coltivando piccoli fiori dai colori vivaci. La sua creazione più popolare fu l’Ojo Poco, un fiore color albicocca con un occhio di bue rosso che lo rendeva immediatamente riconoscibile anche tra cento altri esemplari della stessa specie. Il suo contributo alla floricoltura e all’ibridazione delle emerocallidi fu tale che l’American Hemerocallis Society decise di dedicargli la varietà del “Siloam Leo Sharp”, un fiore che sembra fatto di porcellana. Sono piante perenni dalle radici rizomatose, le emerocallidi. I loro fiori sono belli (kalòs), ma durano un solo giorno (hēmérā). Ne producono in continuazione. Nella notte fioriscono, rimpiazzando i fiori che sono seccati durante il giorno. Simili ai gigli nell’aspetto (nei paesi anglosassoni sono chiamate “daylily”, cioè i “gigli di un giorno”), durano molto più a lungo e sono delle vere e proprie fabbriche di fiori. I vicini di Sharp a Michigan City ricordano ancora le file chilometriche dei clienti fuori al suo cancello.

Proprio con l’immagine di una emerocallide si apre e si chiude The Mule, film del 2018 che Clint Eastwood, di cui oggi si festeggiano i 90 anni, dedicò a Leo Sharp (Earl Stone, nel film). Nell’immagine di questa pianta in continua produzione, colta nell’eterno sforzo di fiorire di fiori destinati a durare ventiquattr’ore, si è rivisto un regista considerato da tutti il simbolo di un cinema molto classico (che ha le sue radici nella tradizione americana degli anni ’30), ma che invece ha sempre realizzato i propri film seguendo processi e metodi di lavorazione completamente estranei a quel tipo di industria cinematografica. Era il 1967 (debuttavano i Doors) quando Clint Eastwood decise di fondare una sua compagnia di produzione, la Malpaso, così da garantirsi il controllo sui propri film. Ben due anni prima che Francis Ford Coppola fondasse la American Zoetrope, gettando le basi per quello che sarebbe poi diventato il modello di produzione della Nuova Hollywood fino ai primi anni ’80 (con il fallimento de I Cancelli del Cielo).

D’altronde Eastwood, pur operando sempre all’interno del sistema ed essendo decisamente meno irrequieto di gente come Scorsese o Friedkin, sul set lavora come lavoravano gli autori europei degli anni ’60, a cui i suoi colleghi della Nuova Hollywood si ispiravano esplicitamente: non fa prove, non fa affidamento alle shot-list o agli storyboard per organizzare le riprese e di fatto rifiuta tutti quegli espedienti industriali che da sempre caratterizzano le produzioni degli studios americani. Clint Eastwood non modifica il copione e non fa test screenings, gira nelle location reali e tende ad evitare i teatri di posa (come testimoniano i tanti aneddoti su I ponti di Madison County).

Fra le cose di cui si dice fiero c’è quella di aver quasi sempre terminato la produzione dei suoi film sotto il budget stabilito. Senza che questo volesse dire “affrettarsi” a concludere un film. Il suo motto, non a caso, è: Nobody runs in a hospital, and they’re saving lives. Non si fanno quasi mai più di due o tre ciak e quando qualche attore insiste per riprovare una scena, Eastwood ha la risposta pronta: Non voglio far perdere tempo a tutti (come disse a Matt Damon). Non diversamente dalle grandi icone della Nouvelle Vague, per Clint Eastwood “l’autore” è quello che prende le decisioni. Ed è rimasto fermo su questa posizione molto più di quanto non lo siano stati, per l’appunto, Scorsese, Coppola o Demme, i quali, prima o dopo, sono scesi a patti con il sistema che cercavano di aggirare.

Anzi, con il passare del tempo il suo modo di lavorare sui film è diventato ancora più radicale e risolutivo: Sully (2016), Ore 15:17 - Attacco al treno (2018), Il corriere - The Mule (2018) e Richard Jewell (2019) sono film girati in rapidissima successione e, al di là del giudizio che si può dare su ciascuno di essi, sono tutti film dalle idee molto chiare, chirurgicamente assemblati e in grado di arrivare rapidamente al punto. Ma secondo la “lezione americana” di calviniana memoria, rapidità non è per forza sinonimo di velocità. Quindi neanche l’opposto della lentezza. Vuol dire capire e assecondare il respiro della narrazione. Per usare le parole di Calvino, la rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, ovvero tutte quelle qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte. Proprio per questo, gli ultimi film di Clint Eastwood, nonostante il loro rigore e la loro asciuttezza, quindi essenzialità, trovano il proprio senso nelle scene marginali, quelle apparentemente superflue che non mandano avanti la trama (ad esempio il dialogo con il poliziotto in The Mule determinato da una pausa pranzo improvvisata a base di pulled pork).

Eastwood non cambia quasi mai i suoi collaboratori. Da Play Misty For Me (1971) a Il cavaliere pallido (1985) il suo direttore della fotografia fu Bruce Surtees, poi da Gunny (1986) a Space Cowboys (2000) ci fu Jack N. Green, assistente del precedente. Da Debito di Sangue (2002) a Ore 15:17 - Attacco al treno (2018) c’è stato Tom Stern, assistente di Green, e da Il corriere - The Mule ad oggi c’è Yves Bélanger, assistente di Stern. Una vera e propria “factory”. Persone con le quali capirsi senza avere la necessità di parlare. E infatti Clint Eastwood, quando lavora, non ama parlare molto. Ai suoi esordi nella serie televisiva Rawhide, i registi avevano l’abitudine di comunicare con gli attori urlando nei megafoni e facendo regolarmente imbizzarrire i cavalli presenti sul set. Già da allora si ripromise che, se mai fosse passato dietro alla macchina da presa, non avrebbe fatto lo stesso. Per comunicare con le maestranze basta un gesto della mano.

Se prima del 1997 aveva sparato migliaia di proiettili, da Gli Spietati in poi ogni colpo nei suoi film si è caricato di una gravità che prima non aveva, creando più problemi di quanti effettivamente ne risolveva. Il suo cinema, fatto di eroi poco “desiderabili”, nei panni dei quali difficilmente ci si vorrebbe trovare, si è evoluto insieme al suo pensiero, arrivando alla conclusione che non esistono responsabilità collettive, ma solo individuali. E che i fatti contano sempre più delle parole. Il cinema di Clint Eastwood è ancora caratterizzato da una urgenza che attraversa ogni inquadratura. Esprime la voglia di godersi ciò che resta. Di continuare a fare film fin quando si ha la forza per farli, senza pensarci troppo sopra. Non si vive di fretta, ma non per questo si deve perdere tempo.