In House of Gucci c’è una performance, quella di Jared Leto, che è una scoria di ciò che il film sarebbe potuto essere e non è. La sua interpretazione di Paolo Gucci, così parodica, degenerata e irrispettosa, è la traccia di un film grandguignolesco che non esiste e che ha invece ceduto il passo ad un film tutto sommato molto ordinario. Per intenderci, House of Gucci non è The Counselor: ed è questo il problema. Rivedendo oggi quel (sottovalutato) film del 2014, in cui Ridley Scott già metteva in scena il tripudio del lusso che confina con l’orrore, il disinteresse generale dell’umanità astante e le esagerate manifestazioni di potere (la scena ormai celebre della spaccata di Cameron Diaz sul parabrezza della Ferrari), ci si rende conto del potenziale inespresso di un film come House of Gucci: idealmente perfetto per raccontare la cadaverizzazione di un metodo (l’Actors Studio), di una forma cinematografica (l’epopea famigliare che attraversa i decenni) e di un’era, quella delle grandi famiglie imprenditoriali schiacciate da multinazionali e società gigantesche in grado di annichilire qualsiasi ambizione di ascesa sociale basata esclusivamente su inventiva e perseveranza (ciò che il cinema americano ha raccontato per decenni).

Se invece la recitazione di Leto finisce per risultare imbarazzante e sgradevole è perché il film e tutti quelli che recitano con lui procedono in una direzione diversa, isolandolo e trasformandolo nella scheggia impazzita di un film alla costante ricerca di un proprio equilibrio tra farsa e dramma. La sua rappresentazione di Paolo Gucci è solamente uno dei due poli tra cui oscilla House of Gucci. All’estremo opposto c’è infatti Lady Gaga, con la sua ostentata dedizione al personaggio e la totale convinzione nel proprio ruolo. La sua, a differenza di quella di Leto, è una prova dalle grandi ambizioni, che cerca di tratteggiare una figura complessa e lavorare di sfumature. Nei momenti in cui il film sceglie il tono più insolente, è lei a sembrare troppo ingabbiata nel desiderio di legittimazione cinematografica. Nei momenti (preponderanti) in cui il film si fa più tradizionale, è Leto ad essere spiacevolmente fuori luogo.

Solo in pochissimi frangenti, quando il tono del racconto e la recitazione finalmente coincidono, si riesce ad intravedere un’occasione di derisione nei confronti dello spettacolo hollywoodiano, vittima dei suoi stessi tic e déjà vu, ormai troppo consapevole di sé per essere credibile. Sono i momenti iniziali, quelli in cui Patrizia Reggiani viene presentata al pubblico attraverso una introduzione formidabile che racconta il suo tentativo di conquistare Maurizio Gucci. Pochissimi minuti che mettono subito in chiaro come sia lei a guidare il gioco (facendo però in modo che sia sempre lui ad avere l’illusione di aver compiuto i passi decisivi). Così, dicendo pochissimo e lavorando esclusivamente sulla recitazione dei suoi protagonisti, Ridley Scott rende evidente il tipo di relazione asimmetrica che li tiene insieme, sottolineando gli interessi (soprattutto economici) di lei senza per questo sminuire e negare l’esistenza di un sentimento nei riguardi di lui. Un bilanciamento perfetto che il film non riuscirà più a raggiungere lungo la sua durata.

Tutti recitano (nella versione originale) con un accento italiano pesante e forzatissimo: una decisione ridicola se analizzata con l’ottica del realismo e invece estremamente efficace per rendere ancora più feroce e irridente la descrizione della famiglia Gucci che viene fatta dal film. Ma anche in questo caso non è ben chiaro in quale metà di campo voglia stare House of Gucci: se Lady Gaga sembra credere davvero alla possibilità di risultare plausibile nonostante una parlata irrimediabilmente caricaturale (più vicina alle lingue dell’est), Jared Leto si compiace troppo del grottesco che c’è nel suo personaggio, enfatizzando il suo accento posticcio e cavalcando tutti gli stereotipi sul modo di esprimersi e comunicare degli italiani. Così House of Gucci, strattonato da intenzioni troppo divergenti tra loro, finisce per essere una rappresentazione approssimativa e difettosa di quel sistema cinematografico, ormai vecchio e obsoleto, che voleva deridere.