Qualche mese fa, in occasione del debutto (in streaming) del film, Paul Schrader aveva definito Cry Macho, nuovo lungometraggio di Clint Eastwood, come “il peggior passo falso di un grande regista americano dai tempi de Lo sport preferito dall’uomo di Howard Hawks”. Tralasciando i giudizi personali, l’accostamento è sicuramente interessante: nell’ultimo film di Eastwood c’è lo stesso gesto spoglio, la stessa impressione di trovarsi davanti all’osso ormai spolpato di una carriera nuovamente ingurgitata e masticata. Se il film di Hawks, ultimo suo incontro con la commedia, fu inizialmente bollato come un collage di luoghi comuni stancamente riproposti, ad una successiva analisi fu rivalutato e giudicato come il tentativo definitivo (e più feroce) di cristallizzare alcune delle figure fondamentali di quella screwball comedy che aveva contribuito a creare negli anni Trenta e Quaranta.

Anche in questo caso, sarebbe facile ridurre Cry Macho ad una summa in senso retrospettivo o antiquario, ad una sterile operazione di revisione spicciola utile a rileggere il passato attraverso la lente della senilità. Ma si trascurerebbe così lo sforzo di Eastwood teso a decostruire il suo stesso mito, a sovrapporre sé stesso e il suo fantasma cinematografico in una ridicolizzazione della mascolinità inscalfibile e di chi ne ha fatto una bandiera (anche, erroneamente, attraverso i suoi film e i suoi personaggi). Eastwood (come Hawks) è stato uno specialista della ripetizione, del di nuovo, della re-iterazione come unità funzionale del proprio cinema inteso come paziente e metodico ritorno sulle medesime azioni. Ma ogni gesto, così come il suo cinema ha sempre insegnato, cambia profondamente di significato a seconda del momento e del contesto in cui viene eseguito e trasposto su schermo.

La sceneggiatura di Nash circola dagli inizi degli anni Settanta. Dopo due rifiuti consecutivi della 20th Century Fox, fu trasformata in un romanzo nel 1975 e poi nuovamente, in una versione aggiornata, proposta a diverse case di produzione, passando per le mani dello stesso Eastwood, che però nel 1998 rinunciò al film per tornare nel ruolo dell’ispettore Callaghan in The Dead Pool. Il fatto che sia lui, a 91 anni, il protagonista (che di anni ne dovrebbe avere molti di meno) dell’unica trasposizione cinematografica esistente di quella sceneggiatura, non è secondario: Cry Macho crea una sovrimpressione immaginaria tra due corpi, quello attuale e quello pregresso, e rende in ogni modo evidente il proprio anacronismo (che non è quello del passato che emerge in maniera stridente nel presente, ma quello di un corpo presente che si inserisce in un contesto che esisteva prima e senza di lui e che ha aspettato immobile di accoglierlo). È una compenetrazione di immagini visibili e non visibili che lascia intravedere in trasparenza quel che c’è dietro di esse, ciò che i personaggi dovevano e potevano essere nel passato e ciò che invece si ritrovano ad essere nel presente.

Con il passare del tempo, Clint Eastwood ha adottato un approccio ai propri film sempre più sbrigativo e risolutivo: Ore 15:17 - Attacco al treno (2018), Il corriere - The Mule (2018) e Richard Jewell (2019) sono film girati in rapidissima successione e, al di là della diversa valutazione che si può dare su di essi, sono tutti film dalle idee molto chiare e in grado di arrivare rapidamente al punto. Ma sono anche film che trovano il proprio senso nelle scene marginali, quelle apparentemente superflue che non mandano avanti la trama (le scorribande europee dei giovani soldati di Ore 15:17, il dialogo con il poliziotto in The Mule che nasce da una pausa pranzo improvvisata). Un cinema che si basa quindi sulla rapidità dello stile e del pensiero nell’accezione calviniana, quella che coniuga agilità, mobilità e disinvoltura, con la capacità di essere pronto alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo altrettante giravolte. Cry Macho è l’estrema conseguenza di questo modo di lavorare: inizia con un passo veloce e svolte narrative molto nette, per poi aprire - proprio quando la storia originale di Nash si faceva più concitata e avvincente - una lunghissima digressione sulla trama principale, concedendo ad un breve respiro di sollievo la possibilità di espandersi e riempire d’aria tutto il film.

Come le emerocallidi di The Mule (fiori destinati a durare il tempo di una giornata) e come il villaggio fantastico di Brigadoon, che compare per un solo giorno ogni cento anni, la cittadina messicana in cui arrivano i protagonisti di Cry Macho è una ambientazione senza storia che dura il tempo di un film, lo sfondo esotico sul quale si staglia un corpo troppo vecchio, troppo mitico, troppo carico di finzione per testimoniare qualcosa di diverso dalla sua fine e dalla sua scomparsa. Rafa e Mike si mettono in viaggio, accompagnati dal fidato animale del ragazzo, un gallo di nome Macho, simbolo fin troppo evidente di una mascolinità che sia uno (troppo giovane) che l’altro (troppo vecchio) possono solo simulare. Il loro percorso è disseminato di false insidie, personaggi vagamente abbozzati, cascami della filmografia di Eastwood: l’erotomania di Play Misty for Me (1971), la riparazione di Bronco Billy (1980), il duo di A Perfect World (1993).

Il protagonista del libro di Nash intraprendeva il viaggio verso il Messico non per mantenere la parola data e saldare un debito (come nel film di Eastwood), ma per il desiderio di fare qualcosa per qualcuno. Uno slancio di generosità che lo faceva sentire degno di valore, dandogli la sensazione di avere “il diritto di chiedere qualcosa alla vita”. Il personaggio del film riconosce quel suo stesso bisogno in una locandiera premurosa che gli offre l’approdo che il suo corrispettivo letterario non riuscì a raggiungere, esaudendo forse la sua richiesta (inespressa) nei confronti della vita.