Il Primo Uomo, come ogni altro film di Damien Chazelle, narra di grandi ambizioni che per essere soddisfatte devono necessariamente scontrarsi con difficoltà altrettanto importanti, che sembrano costituire inizialmente uno scoglio insormontabile ma poi diventano stimolo necessario per perseverare con dedizione quasi maniacale nel proprio lavoro (o nella propria passione). A sorprendere questa volta è però la maniera unica con la quale Chazelle decide di narrare una vicenda di grande rilevanza storica senza alcun clamore, come se quella di Neil Armstrong, primo uomo a mettere piede sulla Luna, fosse una vicenda non così diversa da tante altre e come se il suo lavoro non fosse poi così incredibile come invece sembrerebbe dal di fuori.

I due attori protagonisti recitano quasi sempre per sottrazione e i loro personaggi misurano le proprie reazioni anche davanti alle notizie più impensabili, quelle per cui ci si aspetterebbe invece da parte loro sorpresa ed entusiasmo. Se Claire Foy stupisce per la grande abilità con la quale riesce a declinare in maniera sempre diversa una sola emozione, che è quella della preoccupazione per l’incolumità del proprio marito, Ryan Gosling utilizza il suo stile minimale per caratterizzare un personaggio che non ha il carisma dell’eroe ma la serietà dei professionisti più responsabili. Perché anche lo sforzo della Nasa nel portare l’uomo sulla Luna, nel cinema di Chazelle, dove la perfezione è sempre sofferenza, non ha nessuna connotazione avventurosa ma è un compito che richiede sacrificio e che è reso ancora più gravoso dal senso del dovere di chi ci lavora.

Come già in La La Land, che riprendeva un genere (il musical classico hollywoodiano) appartenente al passato del cinema per parlare di sentimenti in una maniera così candida e romantica da essere accettabile solo in quel particolare contesto, così anche ne Il Primo Uomo le emozioni che muovono i protagonisti sono quelle più elementari, che non hanno bisogno di approfondimenti o spiegazioni perché immediatamente chiare e leggibili nella loro semplicità. Il dramma che apre il film è anche l’avvenimento cruciale che da lì in avanti condurrà ogni azione del protagonista, ma Chazelle sceglie di sottolineare fin troppo spesso in maniera didascalica allo spettatore ciò che in realtà è già difficilmente fraintendibile, ovvero che è proprio la sofferenza a spingere l’astronauta verso traguardi sempre più ambiziosi. Nonostante la struttura rigida e di stampo classico, infatti, i modelli de Il Primo Uomo sono moderni (da Kaufman a Ron Howard, passando per Malick) e non più appartenenti ad un’altra epoca del cinema. Così diventa meno accettabile in un film del genere l’ingenuità quasi naive con cui vengono trattati i sentimenti dei propri personaggi.

Chazelle riprende le sequenze in volo come se il suo fosse uno di quei piccolissimi film sci-fi anni ’70 a basso budget (sembra di vedere Dark Star di Carpenter in alcuni momenti) e non una grande produzione del 2018, lasciando che gran parte del campo visivo sia sempre occupato dal corpo delle sue navicelle nelle riprese esterne e stringendo sui volti dei personaggi quando invece la cinepresa è posizionata all’interno dell’abitacolo. Nello spazio del giovane regista americano non sembra esserci mai davvero nulla di suggestivo o affascinante, ma solo ferraglia che vola in orbita, di quella che comincia a scricchiolare pericolosamente se la si colpisce troppo forte per schiacciare una mosca che ci si è posata sopra. Il costante senso di precarietà che il protagonista prova sulla Terra non lo abbandona neanche in volo, dove ogni cosa sembra essere destinata a rompersi o ad esplodere.

Le sequenze più adrenaliniche del film riguardano i numerosi voli di prova prima dell’effettivo lancio dell’Apollo 11, che invece è la sola operazione che avviene senza grandi imprevisti e che si inserisce in un anti-climax che dà un senso a tutti i pericoli corsi e agli errori commessi (anche quelli più gravi) in precedenza, che servivano (e forse erano inevitabili) ad arrivare preparati al grande giorno. Per la prima volta nel cinema di Chazelle, però, la dedizione del protagonista non sembra essere il solo fattore decisivo nella riuscita della sua impresa. C’è infatti una macabra ironia che accompagna la successione di funerali e addii (che per ovvie ragioni esulano dalla sua volontà) che condurrà poi Neil Armstrong sulla Luna per una lugubre forma di predestinazione.

Il Primo Uomo è quindi un film impeccabile dal punto di vista tecnico (ci sono tutti gli elementi distintivi del cinema di Chazelle: la messa in scena sofisticata, la colonna sonora sempre impeccabile di Justin Hurwitz e la grana vintage delle pellicole di altri tempi) ma dal quale non sempre emerge il talento di un giovane regista che sia con Whiplash (che sembrava Rocky in versione musicale) che con La La Land aveva saputo raccogliere dei modelli ben precisi dal suo passato cinematografico per portare avanti una idea di cinema che era invece del tutto inedita e personale.