Il nuovo film di Thomas Vinterberg racconta la storia di quattro docenti di scuola superiore e del loro singolare esperimento: bere quotidianamente una determinata quantità di alcol nel tentativo di ritrovare una perduta vitalità, di essere nuovamente creativi, ispirati, “migliorando” così il lavoro con i propri studenti e la qualità delle loro relazioni sociali. Una trama già abbastanza audace, ma che la realtà ha ulteriormente sconvolto, influenzando senso e significato di quanto raccontato. Poco prima di cominciare le riprese, la figlia 19enne del cineasta danese è stata coinvolta in un incidente d’auto che le è stato fatale. Ida, la ragazza, aveva sostenuto con forza il desiderio del padre di girare Un altro giro, nel quale doveva persino apparire come attrice. Era un film che sentiva proprio, a tal punto da contribuire personalmente alla stesura della sceneggiatura con suggerimenti e critiche. Vinterberg si era confidato molto con lei e così, quando è venuta a mancare, Ida è diventata la ragione più pressante per completare il film, che inevitabilmente si è trasformato in uno strumento per elaborare il lutto attraverso la celebrazione del vivere (e non solo dell’essere vivi).

Avvicinandosi lentamente alla religione, l’ateo Vinterberg, cresciuto con l’insegnamento che “tra la terra e il cielo c’è molto meno di quanto si creda”, ha cominciato un processo complesso e difficile, accompagnato dalla moglie Helene (che è una vicaria parrocchiale nella Danimarca luterana), verso una religiosità che ha molto a che vedere con l’accettazione di ciò che è imponderabile, con la rassegnazione all’incapacità umana di controllare ogni cosa (in un mondo “out of control” in cui è paradossalmente possibile controllare precisamente e in tempo reale il numero di passi percorsi in una giornata e il numero di click ricevuti dalla recensione di un film). Questo continuo conflitto tra razionalità e fede (o ciò che viene immediatamente prima di essa, cioè la speranza) si riflette nel nuovo film del regista danese, in cui la radicale decisione dei protagonisti non è riconducibile esclusivamente alla sfera dell’esperienza interiore, ma a quella della consapevolezza analitica. Come il poeta francese Jean Genet, quello che fa Thomas Vinterberg è raccontare il desiderio dell’abiezione anche nella consapevolezza che questa possa condurre, in estrema conseguenza, al dramma e alla sofferenza: i personaggi la vogliono per loro stessi, al di là dei vantaggi che vi trovano, la vogliono per una propensione turbinosa nella quale si perdono non meno totalmente del mistico che nell’estasi si perde in Dio.

A differenza che in Genet, però, una simile ricerca non è fatalmente destinata alla delusione (o alla farsa), ma trova un suo effettivo compimento, conduce ad un reale appagamento nonostante le conseguenze spesso tragiche che essa inevitabilmente causa, ad un crescente senso di liberazione che monta nonostante i problemi peggiorino. Forse Georges Bataille aveva ragione quando suggeriva che “non bisogna eliminare completamente il desiderio di mettersi in pericolo, ma imparare ad usarlo in modo produttivo”. Non si tratta di sperare di eliminare del tutto l’abiezione, ma piuttosto di tenere traccia dei suoi effetti e di prendere sul serio l’impatto che essa ha nella quotidianità di ciascuno. Dal punto di vista batailliano, il film di Vinterberg apre nel testo «dei discorsi, delle lacerazioni, delle fratture attraverso cui la materialità rimossa, la negatività nascosta (o “recuperata” come positiva) riemergano con la loro carica di angoscia per dare all’uomo la chance, la possibilità di salvezza» (che era ciò che avveniva anche in un film apparentemente distante come Flight di Zemeckis).

Si profila quindi un’alternanza contraddittoria e irrisolvibile di lucidità e perdita di sé, di oscillazione fra la riflessione calma e attenta sugli esiti possibili della propria trasgressione e l’ebbrezza e il disordine dell’impossibile. Se «il cuore è umano nella misura in cui si rivolta», il cinema di Thomas Vinterberg è essenzialmente slancio, esercizio atletico sull’orlo dell’eccesso e mai accettazione del mondo dato. Il genere umano, secolarmente e cristianamente unito nel ricordo del suo delitto, trova nella condivisione della colpa e dell’infrazione il modo di interrompere un’esistenza isolata e solo personale. I protagonisti del film, abbandonando ogni prudenza, si affidano alla chance nel «credere o nel fingere di credere che il mondo non è là perché l’uomo lo conosca, ma perché ne sia colmo». Questo mettere in gioco se stessi, fino a correre il rischio di perdere il bene più prezioso – la propria vita – è ciò che viene richiesto per vivere.

Ma il dodicesimo film di Vinterberg è anche quello concettualmente più vicino al suo manifesto cinematografico (il Festen del periodo Dogma 95), nel quale un gruppo di persone riunite per una festa di compleanno cercavano disperatamente di reggere il peso di alcune rivelazioni intollerabili senza minare l’apparente tranquillità della loro serata. Anche in questo caso, quello del regista danese è un sorprendente studio sul tentativo di un gruppo di individui di assumere, respingere e distribuire la colpa, un’affascinante esplorazione delle dinamiche del branco. Dinamiche universali e trasversali, esistenti nelle sfere dell’alta borghesia e nella classe operaia, replicabili durante un banchetto in un maniero o in una comune hippie (il film del 1998 fu banalmente ridotto ad una invettiva contro la borghesia, ma la decisione del contesto fu dettata dalla voglia, squisitamente estetica, di Vinterberg di girare nel Castello di Skjoldenæsholm).

L’ambientazione scolastica di Un altro giro serve ad amplificare la reiterazione: i professori sono abituati alla ossessiva e stanca ripetizione delle stesse nozioni e ciò li rende i migliori destinatari di un esperimento che invece punta ad introdurre una variabile indipendente nella concatenazione di avvenimenti che accadono uguali a loro stessi (così come la frequentazione quotidiana permette loro di monitorare costantemente i propri risultati). La società, nel cinema di Vinterberg, esiste nel conflitto e nel tentativo di co-esistenza di piccole e piccolissime comunità di individui costretti, in vari contesti, a dover vivere insieme (il gruppo classe, il consiglio docenti, il consiglio di istituto). I legami tra le diverse personalità che compongono queste micro-comunità e le relazioni tra la stesse sono da sempre il principale oggetto di indagine di Vinterberg: non solo la famiglia di Festen, ma anche La Comune del 2016, il villaggio ottocentesco di Far from the Madding Crowd e il paese della Danimarca moderna di The Hunt, fino alla ciurma del recente Kursk.

Nella scena finale, nella danza allo stesso tempo impulsiva e coreografata di Mads Mikkelsen (che è stato un danzatore professionista, addirittura formato alla scuola della Graham, prima di diventare attore), c’è di nuovo tutto Genet: «La bellezza che suscita il canto (in questo caso la danza, ndr) è l’infrazione della legge, è l’infrazione dell’interdetto». Il ballo è esperienza al culmine, espressione di un momento dell’esistere che non può essere afferrato a pieno, essendo «salto dal possibile all’impossibile e dall’impossibile al possibile» (come lo era il riso per Bataille). Nel legame tra il pensiero e il sentire, affiorano le esperienze propiziatorie (dépense) di trasgressione che segnano l’esistenza al suo apice (riso, erotismo, estasi, sacrificio, danza), residuo irriducibile di quella percentuale dell’attività umana che si svolge tutta in perdita.

La promessa di una seconda occasione, di un altro giro, contenuta nella danza di Mikkelsen, non ha nulla a che vedere con l’eterno ritorno: non è la ripetizione che si (ri)presenta, ma la possibilità finalmente di agire nella storia, anche personale. La chance può solo accadere, non può essere ricercata. E quando la possibilità accade, si deve mettere in gioco tutto ciò che si ha per realizzarla o, più esattamente, per viverla.