Verrebbe da pensare, se non fosse palese lo sprezzante anticlericalismo di Martin McDonagh, che i tre manifesti del nuovo lavoro del regista irlandese siano metaforicamente assimilabili ai tre chiodi di Gesù crocifisso in croce. Perché i tre cartelloni da cui prende il via la storia, affissi da una madre che non vuole lasciare impunito il brutale omicidio di sua figlia, non servono solo a porre la polizia (e con essa quella parte di società che nel suo operato continua a credere) davanti alla propria negligenza, ma a scolpire una tragedia personale nella memoria comune. Da questa situazione iniziale, in cui sembra chiaro quale sia la parte giusta con cui schierarsi, la ribellione di Mildred (Frances McDormand) prenderà una piega sempre più radicale e violenta, quindi meno facilmente assecondabile moralmente.

È una concezione di cinema di “protesta” simile a quello dello Spike Lee di Fa’ la cosa giusta, con la grande differenza che in questo caso il regista non assume una posizione precisa (come invece fa quasi sempre il cineasta afroamericano) e sospende il giudizio sulla sua protagonista, con una conclusione volutamente vaga che non risolve il dubbio sulla sua reale lucidità. Per McDonagh sembra non possa esistere oggi una sollevazione condivisa (la comunità si schiera da subito contro la donna e la sua idea) e così la maturazione di una coscienza di lotta resta “questione privata”. I luoghi di questa America profonda sembrano chiamare in causa i Coen ma è diametralmente diverso l’approccio che McDonagh usa per narrare la propria storia: i personaggi non sono mai in balìa del caos, né vengono travolti da imprevisti che sfuggono alla loro volontà, bensì ogni loro iniziativa è mossa dalla determinazione più ferrea, da una consapevolezza delle proprie azioni che invece nel cinema coeaniano è quasi sempre superflua e marginale.

McDonagh già con Seven Psychopaths aveva dimostrato una abilità unica nel cercare in ogni modo la soluzione meno prevedibile, sia nella narrazione che negli scambi verbali tra i personaggi. In questa sua bravura sta anche la vera forza di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, con la sua cadenza scostante e la sua capacità di sorprendere con un gesto improvviso o con una frase pronunciata proprio quando si pensa che non ci sia più nulla da dire. Se lo scopo di In Bruges era quello di scardinare i cliché con cui venivano mostrati i “gangster” sul grande schermo, questa sua nuova opera mira a schernire il fariseismo con il quale il cinema americano spesso presenta i suoi personaggi. Eppure questo sforzo nel descrivere le vicende dei propri protagonisti senza curarsi dei loro personali dolori, che non per forza devono giustificare azioni deplorevoli o desideri di giustizia sommaria, sembra perdersi nella seconda metà del film nelle banali e lacrimevoli astuzie dei drammi cinematografici più convenzionali: non solo lettere struggenti recitate in voice-over, ma anche flashback superflui che evidenziano didascalicamente sensi di colpa che potevano essere suggeriti e non necessariamente mostrati. Persino quel rigore nella sceneggiatura, che è il pregio migliore di questa operazione, in un paio di occasioni sembra cedere il passo a sequenze sopravvissute in fase di montaggio per ragioni inspiegabili.

Il regista irlandese costruisce la propria storia in maniera brillante, seguendo le strutture più classiche (ogni personaggio segue un arco narrativo rigidamente diviso in tre atti) ma agitando così spesso le acque da non darlo mai a vedere. Eppure Tre manifesti a Ebbing, Missouri coinvolge più per le sue singole trovate che per il risultato complessivo. Così questa storia nerissima, che sembrava non lasciare via di scampo, resta uno schiaffo a mezz’aria che non colpisce mai chi guarda con la forza necessaria a determinare una presa di coscienza davvero profonda.