Darren Aronofsky compie con The Whale un’operazione molto simile a quella già messa a punto con The Wrestler: prendere un attore che è stato famoso e adesso non lo è più, offrirgli una nuova occasione per una grande performance, puntare su di uno spunto che abbia a che fare con il suo passato reale (la violenza per Rourke, i problemi di peso per Brendan Fraser) e creare attorno al suo corpo una narrazione che appare condannata ad un esito tragico segnato da esso. Il protagonista in questo caso è Charlie, un uomo di circa trecento chili, gravemente compromesso a livello cardiaco, che non riesce a muoversi in casa (dove vive da solo, dopo aver subito un lutto che lo ha devastato psicologicamente) senza l’aiuto di un deambulatore. Il suo fisico è il segno di un malessere (qualcosa è successo che ha innescato questo processo di autodistruzione), di una tragedia quotidiana tamponata dalla possibilità di non pensare troppo a se stesso per via del suo lavoro che irrimediabilmente tende verso l’ascolto e la comprensione degli altri: l’insegnante via zoom. Dopo Noah e Madre!, però, sembra impossibile analizzare il cinema di Aronofsky senza considerare l’ipotesi di un commento biblico. Ed è quindi plausibile che quella balena menzionata nel titolo non sia solo Moby Dick (continuamente citato e chiave metaforica del film) ma anche quella che inghiotte Giona per punirlo della sua disobbedienza rispetto agli ordini divini. Charlie, in qualche modo, è Giona che ha già espiato la propria colpa. La sua casa è il ventre buio di un animale che accoglie diversi personaggi che dentro di esso cambiano la loro percezione delle cose e si fanno improvvisamente più buoni. In quello spazio, tutt’uno con il protagonista che lo abita e lo riempie, la voce di Charlie predica con insistenza una lezione di magnanimità: ciascuno di loro deve prendersi cura del prossimo, deve gettare lontano l’amor di sé e farsi piccolo per servire un disegno più grande, che li trascende e che conferisce alla vita un significato più alto e nobile. La storia di Giona parla di un Dio la cui misericordia non ha frontiere geografiche, culturali, politiche ed economiche. Il dialogo tra Dio e Giona (Giona 4:1-11), che è considerato il culmine del Libro, è un invito a superare la diffidenza e a coltivare la compassione, che è anche il tema centrale di The Whale.

«Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra», si legge nel Vangelo secondo Matteo. Inconsapevolmente, proprio Giona, profeta riluttante e in fuga, diventa il tipo di Gesù (che ne è l’antìtipo), della sua crocifissione e della sua risurrezione. In The Whale, quindi, abbiamo un Giona che ha già completato il suo arco e può finalmente farsi guida per chi ancora deve compiere quei passi. Il meccanismo narrativo è esposto al pubblico, reso evidente e spiegato affinché sia chiaro a tutti: come il narratore di Moby Dick si perde in digressioni sulle diverse tipologie di balene per evitare di affrontare la sua triste storia, cercando di allontanare un altro po’ il momento in cui dovrà confrontarsi con il suo dramma e riprendere le fila del racconto, così Aronofsky indugia molto sulle vicende delle persone che circondano Charlie, chiede allo spettatore di distogliere di tanto in tanto lo sguardo dalla condizione del protagonista e allungare così l’attesa per quella presa di consapevolezza finale riguardo il destino che fatalmente aspetta il personaggio. Charlie è l’improbabile veicolo di una riflessione drammaturgica sulla connessione umana e l’empatia, come già lo era il personaggio della pièce teatrale A Bright New Boise scritta da Samuel D. Hunter (autore anche di The Whale), galvanizzato dal ticchettio dell’orologio che si avvicina verso la fine (dei tempi?). Questi uomini, mentre lottano per costruire una relazione con adolescenti soli ed estraniati dal mondo, incarnano una ricerca che è allo stesso tempo personale e spirituale. Che si tratti di abitare in un fetido loft nel nord dell’Idaho, come Charlie, o nella desolata sala riunioni del personale di una grande catena di negozi, come Will, i personaggi di Hunter sono esemplari complessi di quella che è stata definita dallo stesso scrittore “un’America quotidiana nascosta dietro le tende”. Aronofsky, come il personaggio del suo film, chiede e ordina la verità: che non è un lusso, un privilegio di pochi saggi, ma ciò che fa le nostre vite (e quelle degli altri) viventi o cadaveriche. Qualcosa che non si può compiere solo ognuno per sé, ma che riguarda ciò che si trova al di fuori, su cui spesso non si ha potere di governo, di decisione, di scelta. Per dirla con Alexander Langer: «Beati i profeti che non devono passare per la pancia della balena».