L’essenza del camp, secondo Susan Sontag, la prima a cercarne una definizione esauriente, risiede nel suo gusto per l’innaturale, la finzione e l’esagerazione. Una sensibilità che trasforma il serio in frivolo. Con il suo stesso saggio, in cui Sontag ammetteva che “parlare del camp vuol dire necessariamente fraintenderlo”, la filosofa statunitense tradiva l’oggetto della sua analisi (prendendolo troppo sul serio) e allo stesso tempo faceva del suo libro un oggetto “camp”, in grado di raccontare quell’estetica aderendo ad essa. Ed è proprio questa la soluzione adottata anche da Edgar Wright per The Sparks Brothers, il suo primo documentario: un film polimaterico dedicato alla band statunitense composta da Ron (tastiere) e Russell Mael (voce), fondata a Los Angeles nel 1972.

A differenza di altri documentari musicali, quello di Wright è un film principalmente indirizzato ai neofiti, a chi non ha mai ascoltato gli Sparks o non ne ha mai sentito parlare. Anche per questo non si pone come introduzione alla loro musica, ma approfondisce ogni singolo album della band, dai più celebri a quelli meno conosciuti, arrivando alle più recenti release discografiche, garantendo agli spettatori la possibilità, dopo la visione del documentario, di seguire i futuri esperimenti della band nella consapevolezza di conoscere tutto ciò che è accaduto prima. Un gigantesco previously on che assume, specialmente nei minuti iniziali, l’andamento veloce e rapsodico del trailer, attraverso un montaggio serrato che passa in rassegna le tantissime persone (quasi ottanta) che poi interverranno nel film. Gli intervistati (da Beck a Neil Gaiman) compaiono per qualche secondo per poi svanire immediatamente in un flusso di immagini che sembra generarsi in maniera automatica e autotrofa. Proprio come un gigantesco trailer, il film di Wright si chiude con le immagini dei fratelli Mael che chiacchierano raggianti con Adam Driver sul set di Annette, il prossimo film di Leos Carax per cui hanno scritto musica e sceneggiatura.

In linea con il suo gusto camp, quello di Edgar Wright è un documentario costantemente “manipolato”, più interessato alla leggenda (quindi al racconto non verificabile, specialmente attorno a progetti mai realizzati, come i musical con Jacques Tati) che alla cronaca, che accetta le proprie bugie e le alimenta. E non è ovviamente un caso che la carriera degli Sparks si sia basata in numerose occasioni sulla menzogna. Per promuovere nel mercato europeo il loro No.1 in Heaven, audace album “cosmic disco” prodotto da Giorgio Moroder, cominciarono a diffondere la voce che questo fosse stato registrato in Germania, dove Bowie aveva da poco terminato la sua trilogia berlinese (proprio Low, due anni prima, aveva convinto il pubblico inglese ad avvicinarsi all’elettronica). Ammettere che l’album era stato inciso nella soleggiata (e poco mitologica) Los Angeles ne avrebbe automaticamente ridimensionato il valore: il disco si rivelò effettivamente un successo, divenendo un modello di riferimento persino per i Joy Division (come rivelato da Stephen Morris, nei mesi in cui la band stava lavorando a Love Will Tear Us Apart, erano due i dischi ascoltati in continuazione: un Greatest Hits di Frank Sinatra e No.1 in Heaven degli Sparks). Tutto ciò che vediamo (e ascoltiamo) in The Sparks Brothers ci convince di una cosa che sappiamo non essere vera: che gli Sparks sono uno dei gruppi musicali più conosciuti, influenti e apprezzati del mondo e non il duo marginale per vocazione, ancora oggi ignoto ad una larghissima fetta di pubblico che pure ascolta musicisti che dal lavoro dei fratelli Mael hanno attinto a piene mani (diventando più famosi di loro).

Il film di Edgar Wright cerca di essere la compensazione per tutto ciò che gli Sparks avrebbero potuto realizzare e non hanno realizzato, per gli sforzi dissipati in un nulla di fatto: per i sei anni persi (con relativi costi economici) inseguendo l’adattamento musicale del manga Mai, the Psychic Girl e per i nove trascorsi cercando di trasformare la loro trasmissione radiofonica su Ingmar Bergman in un film. Se The Sparks Brothers si apre con una canzone che ironizza sulla società di produzione del film, non è solo per contestualizzare fin da subito l’umorismo della band, ma per inserirsi nella sua mitologia, presentarsi come un tassello fondamentale della carriera che racconta.

Se, come scrisse anni fa un giornalista di Harper’s Bazaar, l’ironia è il rumore bianco degli anni Novanta, allora gli Sparks hanno cercato in ogni modo di proteggere la loro stravaganza, di cambiare costantemente direzione proprio nel momento in cui tutti gli altri decidevano di seguire la rotta da loro tracciata. I fratelli Mael hanno ripetutamente dimostrato come l’ironia possa ancora funzionare come strumento efficace, nonostante la normalizzazione che l’ha progressivamente resa innocua, inghiottita dalla sensibilità popolare moderna, generalmente e sommariamente fondata sul distacco ironico da tutto. Nel momento in cui l’ironia è diventata malessere, disaffezione endemica, gli Sparks hanno cambiato i toni, ancora una volta marcando la propria differenza e ribadendo il rifiuto ad essere compresi in una generalizzazione che smussa ogni spigolo.

Le cover di tutti gli album della band lampeggiano sullo schermo accompagnate da pagine del dizionario che approfondiscono il significato di parole casuali estrapolate dai loro titoli. Ad una grande varietà di stili di animazione differenti, dalla stop-motion alle vignette sulla falsa riga di Dr. Katz, si affida la narrazione dei momenti salienti della carriera degli Sparks. Proprio questa rincorsa continua del film, che sembra quasi inseguire i suoi stessi protagonisti, sempre pronti ad imbarcarsi in nuove avventure che rischiano di rendere il documentario su di loro immediatamente out of date, segna la totale sovrapposizione tra lo stile cinematografico di Wright e lo stile musicale degli Sparks. Edgar Wright è un regista profondamente influenzato dalla musica (come testimonia Baby Driver, un film d’azione in cui le scene sono costruite su specifici brani musicali, non viceversa), ma è altrettanto vero che gli Sparks sono musicisti profondamente influenzati dal cinema (specialmente dalla nouvelle vague). Così questo documentario imperfetto, allo stesso tempo lungo e compresso, lineare ma sempre pronto a tuffarsi nelle sue digressioni, riesce a svolgere contemporaneamente tre funzioni: riassumere la carriera dei fratelli Mael fino a questo momento, collocarsi in essa e dirsi già superato dagli eventi (cioè dal film di Leos Carax in uscita tra qualche mese).