Quello di Paolo Sorrentino è un Dio che applica l’eutanasia. Non compie miracoli (o almeno non ancora) ma “salva tutti”. Questa salvezza, nei casi in cui è l’esistenza stessa ad essere una condanna, passa anche per il decesso prematuro. I due episodi di The New Pope proiettati a Venezia 76 (il secondo e il settimo) sono attraversati da un senso di tristezza e disperazione molto diverso da quello che invece incombeva sui malinconici eccessi e sulla vuota festosità dei lavori più recenti del regista napoletano, il cui cinico distacco rispetto alle vicende messe in scena sembra qui annullarsi. I drammi dei personaggi rimangono tali e la loro serietà (o gravità) non è esorcizzata attraverso l’ironia. Non mancano i momenti di pura comicità (la serie si apre con un Papa che è la versione da bagaglino di Bergoglio, totalmente incapace e per questo rimosso senza troppi problemi nel giro di un episodio) ma è lo sguardo complessivo ad essere meno sardonico.

Questo cambiamento nel tono è sintetizzato perfettamente dal “nuovo Papa”. La scelta di John Malkovich non è casuale: un attore dalla personalità unica ed immediatamente riconoscibile, da sempre associato a ruoli cinematografici molto forti, viene utilizzato per un personaggio sensibile e fragilissimo. Lo stile e l’atteggiamento di Malkovich non vengono negati (nel primo colloquio con il cardinale Voiello si siede con una postura che nessun altro attore avrebbe probabilmente adottato) ma sfruttati per scopi opposti da quelli per cui altri registi lo hanno scelto in passato. Eppure nonostante questo Papa sia quello dichiaratamente compassionevole e umano, anche per via del suo tragico passato, ci appare, per volontà dello stesso Sorrentino, meno sincero di Pio XIII (che non aveva mai finto di avere quelle qualità che invece il nuovo pontefice si attribuisce). Tutte le prediche che Lenny Belardo riservava a chi parlava con lui, quei suoi monologhi moraleggianti, il Papa di John Malkovich le rivolge a sé (e anche in questo caso l’impressione che si ha non è mai quella di una vera autocritica, ma di un egocentrismo esasperato anche nell’autocommiserazione).

Questa seconda stagione sembra essere meno interessata alla gestione del potere (l’ossessione di Sorrentino da Il Divo in poi) e molto più alla fede e alla spiritualità. Declina due concezioni diverse di fede (e questa differenza implica anche una diversa percezione della stessa e di chi la amministra) attraverso due modi diversi di essere carismatici su schermo (quello anarchico di Malkovich, quello statuario di Jude Law). La vera intuizione della serie, solo accennata nella prima stagione, è infatti quella di sovrapporre celebrità e santità. Quanti sono i fedeli che si fidano del Papa perché devoti e quanti sono i fedeli che lo fanno perché attratti dalla sua bellezza (Law) o dal suo magnetismo (Malkovich)?

Come spesso avviene con Sorrentino, dialoghi scritti benissimo si alternano a battute decisamente meno ispirate e immagini visivamente evocative (i due genitori del nuovo Papa, entrambi sulla sedia a rotelle che fissano per ore, ogni giorno, le foto dei loro figli sulle mensole di un armadio) non escludono altre più pigramente derivative (la raffigurazione già ampiamente abusata de La Pietà). Eppure in The New Pope la mano è più ferma e sicura, lo sguardo più a fuoco rispetto alla prima stagione. La serie di Sorrentino, fino a questo momento quasi esclusivamente chiusa all’interno del Vaticano, si apre al mondo esterno, comincia a riflettere sulla comunicazione che deve esserci tra Chiesa e fedeli, per cui anche i respiri di un uomo in coma possono essere trasmessi in diretta radiofonica, trasformati in un evento imperdibile, che sarebbe inammissibile non seguire. Ma questa apertura non è tanto un varco (un modo per rendere accessibile un’istituzione storicamente impenetrabile) quanto una lacerazione, una necessità che viene imposta dagli eventi.