In occasione del centenario della nascita di Ingmar Bergman, Stranger Than Cinema propone una serie di approfondimenti su alcuni dei film più iconici del maestro svedese. Gli articoli saranno pubblicati a cadenza regolare sul sito e convergeranno nella sezione apposita “Speciale Bergman”.

Il valore delle illusioni

Come altri film di Bergman degli anni ’40, anche Monica e il desiderio riguarda una giovane coppia di amanti che decide di fuggire dalle stringenti convenzioni della società. Il film narra infatti del viaggio che condurrà Monika ed Harry dal grigio ed opprimente porto di Stoccolma nella natura incontaminata del suo arcipelago. Nel cinema di Bergman ogni possibilità di fuggire davvero da quelle convenzioni è sempre illusoria, eppure l’esperienza stessa, per quanto velleitaria, sembra comunque rimanere un rito di passaggio fondamentale per raggiungere la maturità (che quindi passa anche dal comprendere cosa si può e cosa non si può fare). Perciò sarebbe ingiusto ridurre Monica e il desiderio ad una parabola di giovanile entusiasmo che diviene disillusione, di fatto perdendo quelle che sono le ambiguità e le complessità di un film che invece vuole celebrare il valore delle illusioni piuttosto che descrivere la deprimente presa di coscienza che proprio quelle illusioni siano in realtà irrimediabilmente destinate a svanire. Nel film, infatti, la fuga dei due amanti è mostrata in ogni suo passaggio e non attraverso flashback come invece avviene in altre opere precedenti di Bergman (che mostrano quasi esclusivamente le conseguenze che quella fuga ha avuto sui personaggi). Lo spettatore è quindi in grado per quasi tutto il film di immaginare a cosa potrebbe portare quella avventura se solo non fosse per propria natura destinata a fallire.

Il film indugia spesso sulle origini operaie di Monika, come per suggerire una sua personale urgenza nel dover scappare dalla propria condizione sociale, che può solo prevedere la dipendenza finanziaria da un uomo o una vita come quella di sua madre. La grande illusione di Monika ed Harry (quella di evadere dalla propria situazione) si regge quindi su illusioni più piccole che i due si fabbricano per alienarsi dal mondo, prima immedesimandosi con personaggi di finzione provenienti da libri e film e successivamente arrivando persino a fingersi degli indiani d’America. Fuga (escape) ma anche escapismo: Monika abbandonerà davvero il suo lavoro e la sua casa, ma finirà anche per identificarsi con ruoli femminili che nulla hanno a che fare con lei, come quello della Hepburn in Song of Love (il film che lei ed Harry vedranno al cinema). Un dualismo che non è dissimile da quello di Blom in A Ship Bound for India, in cui il personaggio principale non può far salpare la sua nave come invece vorrebbe e perciò si rifugia nella evanescenza delle canzoni e dei balli che animano la “music hall” di Sally. Eppure Bergman sembra accogliere con indulgenza la convinzione di Monika di essere una diva del cinema nella scena in cui il primo piano del suo viso appare sullo sfondo nero, sovrapponendo in maniera irreversibile il personaggio di Monika e la donna che la incarna (Harriet Andersson).

Sguardo in camera

Come farà anni dopo la Elisabet di Persona, che si girerà verso il pubblico per scattare una foto agli spettatori del film, così Monika in un close-up guarda direttamente negli occhi i suoi “osservatori”. Si tratta di uno stratagemma narrativo che Bergman utilizzerà in maniera molto più frequente nelle sue rappresentazioni teatrali che nei suoi lungometraggi cinematografici. In The Wild Duck e The Ghost Sonata, ad esempio, il regista svedese posiziona rispettivamente l’attico e la casa nel quale si svolge la pièce non in corrispondenza del backstage (come suggerito dai libretti originali) ma giù in platea, dando la possibilità agli attori di interagire con i personaggi fuori scena come se questi fossero fra il pubblico del teatro. Alla stessa maniera il monologo introduttivo di Hedda Gabler ed il soliloquio alla fine di Lon!: Day's Journey sono recitati dagli interpreti come se questi si stessero rivolgendo agli spettatori, ma la loro posizione sul proscenio indica più il desiderio di fuggire dagli ambienti nei quali sono costretti a vivere che la necessità di comunicare con il pubblico.

La concezione di “teatro oggettivo” fu messa in discussione proprio dalle opere di Strindberg, nelle quali spesso comparivano personaggi che osservavano gli eventi in scena da spettatori e svolgevano il ruolo che nel teatro greco era invece affidato al coro. Proprio seguendo gli insegnamenti del drammaturgo svedese, Bergman nelle sue produzioni teatrali sceglie spesso di isolare un personaggio dal gruppo di protagonisti (Agnes in The Dream Play, lo studente in The Ghost Sonata, Cordelia in King Lear, Ophelia ne l’Amleto) affidando ad esso il ruolo di osservatore esterno degli eventi. L’occhio di questi “osservatori” nel teatro di Bergman (che è regista sia teatrale che cinematografico) è paragonabile sia a quello del pubblico che a quello della macchina da presa. Il ruolo di mediazione di questi personaggi fra pubblico ed attori in scena serve ad “oggettivare” gli eventi che si svolgono sul palcoscenico, a differenza di ciò che avviene nel cinema bergmaniano, dove invece le transizioni fra realtà e sogno sono sempre ambigue e quasi mai didascalicamente evidenziate (vedi speciale su Sussurri e Grida).

Erotismo ed edonismo

Il regista svedese omette quasi del tutto dalla narrazione di Monica e il desiderio qualsiasi riferimento alla gioia edonistica che i due giovani amanti provano durante la loro fuga romantica: il piacere carnale che conduce alla gravidanza, la felicità libera dei corpi che non devono rispondere più a nessuno se non a loro stessi. Questo porta lo spettatore a percepire la storia d’amore fra i due come una relazione destinata fin dai primi istanti ad un finale di disperazione e sofferenza. Così Monica e il desiderio esprime una idea fatalista della disinibita sessualità giovanile, che non può che condurre ad un matrimonio non desiderato o a conseguenze rovinose per le persone che se ne lasciano inebriare. Idea che sarà ripresa in maniera ancora più esplicita in opere successive. In The Devil’s Eye, ad esempio, Bergman riprenderà da Molière (fra i registi teatrali da lui più apprezzati) la figura del Don Giovanni per spogliarla di qualsiasi connotazione riconducibile all’eccitazione (che era propria anche delle diverse letture di Mozart, Byron e Kierkegaard) ed invece decidendo di narrare solo le drammatiche ripercussioni della sua esuberanza sessuale. Persino le scene esplicitamente erotiche di Monica e il desiderio non sembrano avere per Bergman nessuna valenza piacevole ed il ritratto di una donna libera e disobeddiente come la giovane protagonista è in egual misura affascinante e disperato.

Monica e il desiderio riscuoterà grande successo in Francia e troverà fra i critici dei Cahiers du cinema alcuni dei suoi maggiori sostenitori (Godard lo definirà “l’evento cinematografico dell’anno”). Non a caso François Truffaut inserirà la locandina del film in una delle scene del suo I 400 Colpi, anch’esso riguardante la costruzione immaginaria di un mondo accettabile (ma inesistente) come strumento per evadere dalla tragedia della vita quotidiana.