Non è la Roubaix incantata e favolistica di Racconto di Natale quella del nuovo film di Arnaud Desplechin. Il regista torna ancora una volta nella sua città natale per realizzare quello che è il primo polar della sua carriera. Empatico come Maigret, ma malinconico come i poliziotti di Melville, l’ispettore capo Daoud attraversa le strade e le notti di Roubaix con la sicurezza di chi la toponomastica l’ha fatta ormai propria, interiorizzata al punto che scegliere di svoltare a destra piuttosto che a sinistra diventa una questione istintiva e personale. È lui, il personaggio interpretato da Roschdy Zem, la “luce” menzionata nel titolo. Una luce che può emergere solo nel buio di Roubaix. Daoud ascolta, rassicura, capisce, senza rabbia, senza pregiudizi. È il frutto di quella città: appassionato di cavalli indomabili, proveniente da una famiglia di immigrati di ritorno nelle campagne francesi, con un nipote in carcere che lo detesta. È l’angelo de Il cielo sopra Berlino, in grado di leggere i pensieri della città che deve proteggere.

Roubaix, une lumière è un film di finzione, con grandi nomi nei ruoli principali, ma è allo stesso tempo fedelmente ispirato ad un famoso documentario tv (“Roubaix, commissariat central, affaires courantes” di Mosco Levi Boucault) basato su di un fatto di cronaca realmente accaduto. Il “testo” di quel documentario è stato trascritto come se fosse quello di una pièce teatrale e utilizzato come copione per i quattro attori principali del film (Roschdy Zem, Antoine Reinartz, Léa Seydoux e Sara Forestier). Tutti gli altri interpreti non professionisti (“gente di Roubaix”, appunto) lasciati liberi di improvvisare su specifiche indicazioni.

L’esperienza televisiva di Mosco Boucault puntava a mettere in scena un aspetto della realtà poliziesca trascurato nelle narrazioni di finzione: come si svolge davvero un’inchiesta, nelle sue prassi e nei suoi rituali. Il progetto consisteva nel seguire con una troupe cinematografica ridotta tutte le fasi delle inchieste, tentando di cogliere una pratica. Ma c’è una grande differenza tra il lavoro (cinematografico) di Desplechin e quello (documentaristico) di Boucault. Se i documentari di quest’ultimo lavoravano in direzione opposta all’inchiesta (che cerca di mettere in difficoltà i sospettati per farli confessare e, successivamente, poterli condannare), nel film di Desplechin l’uomo a capo delle indagini lavora per raggiungere lo stesso scopo del film. Cerca di capire i sospettati per poterli, forse, salvare.

A narrare la vicenda non è lo stesso commissario, ma il giovane tenente che lo affianca. A lui, non essendo di Roubaix, è affidato il compito di rompere i legami con il documentario, di condurre lo spettatore nella finzione cinematografica, come già Stacy Keach in The New Centurions (Richard Fleischer, 1972). Daoud non è il narratore del film, ma ne è l’eroe. Così il narratore del film non può essere l’eroe, quindi continua a fallire, a commettere errori. Desplechin, evidentemente in difetto rispetto al suo stesso protagonista, ammette la contraddizione persino nella presentazione delle vicende che viene fatta allo spettatore (la voce fuori campo nei primi minuti descrive con numeri e statistiche la condizione di povertà in cui versa Roubaix, in aperto contrasto con la visione, molto più intima e meno sociale, che di quella povertà fa il film di cui è narratore). In questa decisione c’è anche un rovesciamento delle convenzioni: il personaggio misericordioso, la rappresentazione della compassione, non è il narratore cristiano, ma un uomo di origine musulmana.

Il cinema di Desplechin è sempre anti-sociologico, come la lezione di Serge Daney, redattore capo dei «Cahiers du Cinéma», impone. Il cinema come “gigantesca macchina asociale” in grado di insegnare agli spettatori che “al mondo non esiste solo la società”. Quando non resta altro che l’orizzonte sociale, quando il mondo scompare, ci si ritrova prigionieri nella mediocrità del “villaggio globale”, che, come tutti i villaggi, non ha bisogno di critica, ma di imbonitori, di guardie campestri, insomma, per dirla con Daney, “di televisione”. Così Desplechin si riconferma uno dei pochissimi autori in grado di mettere in pratica molte delle teorie della nouvelle vague senza doverne riprodurre sterilmente i modelli formali (ma non mancano scelte audaci, come quella di utilizzare le “assolvenze” che dal nero si aprono nelle scene di interrogatorio).

Ma la Roubaix del titolo non è da intendersi semplicemente come il nome della città in cui è ambientato il racconto, ma anche, come avviene nei documentari di Frederick Wiseman, nel senso di “istituzione”: prima la municipalità, con il proprio welfare e il proprio sistema di assistenza sociale, poi, quando si riduce l’unità spaziale della narrazione, il commissariato. Come in un documentario del leggendario cineasta americano, Desplechin racconta lo stato di benessere di una comunità attraverso un caleidoscopio di sottotrame e personaggi secondari, per poi rinchiudersi in un lunghissimo interrogatorio nel quale lo sforzo incredibile per tirare fuori la verità dalle due imputate diventa anche il tentativo di comprendere la relazione che le lega. Sono le attrici e gli attori a fornire qualcosa che, secondo lo stesso regista, è negata al documentario: la possibilità dell’identificazione. Annie e Stéphanie nel documentario di Mosco Boucault sono per lo spettatore due sorelle mostrate nella loro reale e specifica condizione di difficoltà. Léa Seydoux e Sara Forestier nel film di Desplechin, invece, non sono davvero Claude e Marie. E proprio questa palese discrepanza con la realtà permette l’identificazione dello spettatore con i personaggi (molto più difficile con le persone reali).

Ciò che rende davvero francese Desplechin (nume tutelare: François Truffaut) non è l’appartenenza, ma il fascino mai celato per l’America e per il cinema popolare statunitense (la passione per i cavalli del commissario, assente nel “testo” originale, fa subito venire in mente i noir di John Huston), come per quello giapponese, di cui si trovano tracce nella musica e nella figura stessa di Daoud (che potrebbe essere il Barbarossa di Akira Kurosawa). Anche il film meno radicato nell’immaginazione tra quelli realizzati da Desplechin non può prescindere da una componente metafisica e dalla continua possibilità di trasfigurazione. Come il “treno che arrivava alla stazione di La Ciotat”, che per Desplechin era un minotauro, un amplesso, forse Proust, così le parole della burocrazia, quelle che vengono messe nero su bianco nei verbali, possono astrarsi e diventare poesia nel momento in cui rivelano la verità più intima di chi le pronuncia.