Wolfwalkers è il film animato che, a sei anni di distanza dal suggestivo La canzone del mare, conclude la trilogia di Cartoon Saloon dedicata alla mitologia e al folklore irlandesi. Co-diretto da Tomm Moore e Ross Stewart, il film, presentato al Toronto Film Festival e in arrivo prossimamente su Apple TV+, fa del suo contesto storico la ragione in base alla quale prendere le proprie decisioni estetiche. Ambientato nel 1650, anno dell’assedio di Kilkenny, quando il generale inglese Oliver Cromwell compì il passo decisivo verso la definitiva conquista dell’Irlanda, con lo scopo di “domare” la popolazione locale e annientare la Chiesa cattolica, Wolfwalkers sceglie di affidarsi all’iconografia anti-irlandese dei pamphlet britannici. Volantini di propaganda che venivano realizzati all’epoca attraverso la stampa con blocchi di legno e distribuiti per sostenere la missione “civilizzatrice” di Cromwell, che sbarcò in Irlanda per da­re una lezione ai nativi “barbari e assetati di sangue” che abitavano quello che era considerato un relitto dell’Impero.

La stampa con blocchi di legno su carta avveniva per impressione, con l’inchiostro che si depositava sul foglio per mezzo di matrici sulle quali venivano praticate delle incisioni. Proprio ispirandosi all’imprecisione di quella tecnica, con il colore che spesso usciva fuori dalle guide della matrice, Tomm Moore e Ross Stewart mettono in scena una Kilkenny imperfetta, strabordante, incapace di rimanere all’interno dei confini del suo disegno. Una città che è la stampa imperfetta di se stessa, costantemente traslata e fuori asse. Prendendo atto del rifiuto di Cromwell per i colori (le sue truppe, arrivate in Irlanda, distrussero molte delle vetrate colorate delle chiese), i due decidono di utilizzare per la città una tavolozza dalle tonalità spente e cupe, in contrapposizione all’immagine (invece organica e “precisa”) della foresta acquerellata in cui vivono i lupi.

Gli animali del film sembrano cambiare aspetto quando la protagonista Robyn capisce di non doverne avere paura (prima stilizzati, praticamente ombre che si muovono sullo sfondo o addirittura acqua che scorre come un torrente tra gli alberi, poi progressivamente sempre più dettagliati e caratterizzati nelle loro espressioni). Il tratto del disegno cambia nel momento in cui vi è una presa di coscienza improvvisa o quando il punto di vista sulle cose viene ribaltato. Così anche Robyn, inizialmente un bozzetto di se stessa, comincia ad arricchirsi di linee (le fossette degli occhi) e particolari (il rosa delle guance) man mano che prende consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità. Il corpo delle wolfwalkers (figure a metà tra l’art nouveau e l’immaginario femminile felliniano) si contrappone nella sua geometria ai profili delle case di Kilkenny e agli spigoli che ne costituiscono l’impianto architettonico (che invece si riflette sulla fisionomia dei suoi residenti).

Come i precedenti film della trilogia, anche Wolfwalkers sembra recuperare l’animismo tipico dell’animazione giapponese per metterlo al servizio di archetipi letterari occidentali (in questo caso le Piccole Donne di Louisa May Alcott), arrivando in alcuni momenti (specialmente sul finale) ad adottare la narrazione cinematografica fondata dai classici Disney. Tomm Moore e Ross Stewart sperimentano con i formati (passando dal 4:3 al widescreen) e gli split screen per dare ritmo al racconto, amplificando un determinato avvenimento o rendendolo visivamente centrale. Con l’animatore Eimhinn McNamara, i due hanno lavorato alla visione tridimensionale dei lupi, costruendo gli ambienti con la realtà virtuale per poi stamparli ed usarli come riferimento per replicare il tutto su carta con matita e carboncino: il risultato finale è fatto a mano, ma la progettazione è per la prima volta tutta digitale.

Con un maggiore livello di sofisticazione rispetto ai due precedenti film, Moore e Stewart imprimono un ritmo serrato al proprio racconto attraverso la manipolazione delle immagini e il cambio repentino di stili differenti. Ciò che generalmente viene affidato alla sceneggiatura o al montaggio, in Wolfwalkers è affidato al tratto del disegno. I due registi giocano con la prospettiva (rendendo i personaggi e gli oggetti più grandi di quanto non lo siano realmente o riducendone le dimensioni rispetto alla totalità dello scenario) per cambiare costantemente gli elementi interni alle inquadrature, che, “pulsando”, determinano il battito dell’intero racconto.