C’è sempre un personaggio “terzo” nei film di Xavier Dolan. Uno che solo apparentemente si rifiuta di voler gridare allo spettatore i suoi sentimenti come invece fanno tutti gli altri protagonisti, che alzano il tono della voce per rimarcare il proprio ruolo sulla scena, come se la loro presenza fisica non fosse sufficiente. È un personaggio che osserva ciò che accade, trovandosi sempre nella posizione più scomoda, che lo pone fra le tensioni contrapposte di altri personaggi e nel fuoco incrociato delle loro reazioni emotive. Ne La Mia Vita con John F. Donovan è proprio grazie ad un personaggio terzo che comincia la narrazione cinematografica: una giornalista che si trova a dover condurre una intervista che non ha nessuna voglia di fare, umiliata dal fatto di dover scrivere un articolo su quei “problemucci da primo mondo” che (secondo lei) non interessano nessuno e dovrebbero essere confinati nelle pagine di gossip. Ovviamente anche la rigida reporter vincerà la sua iniziale reticenza ascoltando le parole del suo interlocutore, che racconterà se stesso mettendosi in costante relazione con “l’altro”, ovvero il divo televisivo John F. Donovan, suo attore preferito e “amico di penna” fino al giorno della prematura morte. I ruoli terzi dei film di Xavier Dolan sono anche quelli più complessi da ricoprire, per la necessità di dover rendere evidente, attraverso pochissimi gesti, il risultato delle forze che agiscono su di essi. Thandie Newton è bravissima in questo e, proprio come Marion Cotillard in È Solo La Fine Del Mondo, riesce ogni volta ad inventare espressioni che sarebbero fuori contesto in un qualsiasi altro film non diretto da Dolan. Si fa carico dei sentimenti trattenuti da chi sta conversando con lei, comunicandoli per lui allo spettatore.

L’ossessione principale del primo film “americano” di Dolan è proprio quella di mettere in scena l’impossibilità di raccontare se stessi se non in relazione con gli altri. Le lettere di Donovan svelano i segreti della sua identità sempre mettendo il ragazzo in relazione con le persone che lo circondano (la madre, il fratello, gli amanti e ovviamente i fan). E così la “confessione” dell’intervistato Rupert Turner è per definizione dipendente dal personaggio di Donovan (senza di lui l’intera narrazione non esisterebbe) ma anche dall’interlocutrice che lo sta ascoltando (senza la quale non esisterebbe l’intervista). Paradossalmente, nel “cinema di solitudine” di Xavier Dolan sembra impossibile pensare davvero “soli” i personaggi, che sono invece costantemente circondati da gente con la quale (volenti o nolenti) si devono relazionare. È un cinema in cui pare impensabile avere un momento di reale intimità (persino nella cucina di un vecchio e squallido diner non si può rimanere soli, perché ci sarà sempre qualche confidente, magari con le sembianze di Michael Gambon-Albus Silente, al quale dare conto).

Quello di Dolan è un film che sembra riflettere l’impossibilità del suo stesso autore di ammettere la propria età, di vivere con quella definizione di “enfant prodige” che gli è stata assegnata fin dall’esordio con J’ai tué ma mère. Il personaggio di Kit Harington interpreta sul piccolo schermo un diciassettenne (ma Donovan, nel film, ha in realtà il doppio degli anni) e l’età esatta del piccolo Jacob Tremblay è costantemente dissimulata dalla sua inusuale proprietà di linguaggio e di scrittura (persino alcuni personaggi del film metteranno in discussione l’età che viene attribuita al giovane protagonista). La Mia Vita con John F. Donovan è un film che rifiuta la precisione dei dati anagrafici, preferendo ad essa l’imprecisione delle emozioni, che in ogni momento guidano le azioni dei personaggi, che non possono fare a meno di esternarle platealmente per legittimarle. È lo sguardo “adolescenziale” sul mondo che da anni è il marchio di fabbrica del cinema dolaniano, in cui tutti i personaggi, anche quelli adulti, sembrano vivere le proprie vicende con l’ardore e la veemenza proprie dei ventenni. I protagonisti dei film di Dolan procedono “al contrario”, cercano di comunicare un sentimento (l’amore) generalmente esprimendo quello opposto (l’odio). La recitazione degli attori segue regole che valgono solo nei suoi film, permettendo anche a Kit Harington, con il minimo sforzo, di aderire ad un personaggio che in qualsiasi altro contesto avremmo giudicato negativamente.

Spesso la grande intuizione di Dolan è stata quella di non rivelare mai davvero del tutto allo spettatore le vere intenzioni dei suoi protagonisti, di non svelare mai cosa si “cela” dietro all’immagine che i personaggi proiettano di loro, come invece farebbe un film convenzionale. Per questa volontà di seguire una grammatica cinematografica tutta loro, i film di Dolan sono continuamente “fuori posto”, indugiano su dettagli che altri film trascurerebbero e danno molta importanza a personaggi in realtà marginali. La Mia Vita con John F. Donovan cerca di fare di nuovo tutto questo, ma stavolta Dolan non sembra in grado di maneggiare il materiale a sua disposizione (il film chiaramente risente di un montaggio travagliato, dal quale sono state persino tagliate tutte le scene di Jessica Chastain, sulla quale si era basata per mesi la promozione). In alcuni momenti sembra infatti che Dolan abusi delle sue famose soluzioni visive per ricondurre nel suo terreno cinematografico d’elezione un film ormai sfuggito di mano, schiacciato dal peso della sua stessa complessità narrativa.

Pur nella sua exploitation d’autore (la reiterazione dei suoi segni distintivi finisce per svuotarli progressivamente di senso, negando la loro forza) e nell’incapacità di rimanere miracolosamente affacciato sugli abissi del patetismo melodrammatico senza rimanerne inghiottito (come avviene nei suoi lavori migliori), emerge chiaramente da La Mia Vita con John F. Donovan la soddisfazione di Dolan nell’avere a disposizione dei volti così iconici, facce sulle quali indugiare per minuti interi. La macchina da presa si ferma su di loro con strettissimi primi piani, isolandoli dal contesto e mostrandoceli soli. Ma soli questi personaggi non lo sono mai. È un trucco cinematografico, come d’altronde tutti i film di Xavier Dolan. Un regista che, anche quando sbaglia, è in grado di parlare una lingua che solo lui conosce.