“Jeanne du Barry, c’est moi”. Questo è essenzialmente il riassunto del sesto film di Maïwenn, scelto per aprire la 76esima edizione del Festival di Cannes: un ritratto romantico di una popolana che deve la sua ascesa sociale alla benevolenza dei suoi nobili amanti, fino a diventare la “favorita” di Luigi XV. Anche questo nuovo lavoro non cade troppo lontano dai precedenti one-woman-show a cui Maïwenn ci ha abituato e, insieme a DNA - Le radici dell’amore, finisce per comporre un dittico squisitamente autoreferenziale sulle sue origini (prima quelle etnico-spirituali, ora quelle della sua carriera nell’industria cinematografica). Firma infatti il ritratto compiacente di una donna scandalosa che si stabilì nella rigida e ridicola Versailles (cinema francese), sotto lo sguardo diffidente della Corte, ma con il consenso del re (Luc Besson?).

Jeanne du Barry, plebea della Meuse, è diventata, grazie al suo fascino e alle sue abilità di seduzione, la musa del sovrano. Così come Maïwenn, cresciuta a Seine-Saint-Denis in una famiglia modesta, è diventata autrice celebrata e di successo. L’attrice e regista francese non ha resistito al piacere di ingaggiare sé stessa per questo film, mettendo in chiaro fin da subito di voler sfruttare al massimo il suo carisma e la sua allure da diva per accentuare l’intertestualità di un’opera che vive al di fuori dell’epoca che racconta con grande dispendio di risorse (una produzione da 20 milioni di euro, tantissimo per il cinema europeo, che però fatica a “giustificarsi” sul piano visivo). In questo senso, è fenomenale la soluzione di regia che segna il passaggio dalla giovinezza di Jeanne, con le sembianze timide e dolci di Loli Bahia, a quelle dell’età adulta con il volto sicuro e “potente” di Maïwenn. Si tratta di una scena che chiarisce immediatamente come la protagonista sia l’unica “creatura” destoricizzata in un mondo ancorato al proprio tempo narrativo. Se tutti i personaggi sono impastati nelle convenzioni monarchiche del 17esimo secolo, Jeanne/Maïwenn posa invece su di loro lo sguardo distante di una giovane donna emancipata dal 21esimo secolo.

Le è sufficiente quindi una sola occhiata per convincere Luigi XV che è lei la sola donna che può renderlo felice. Il re, con una scelta di cast che ribadisce l’operazione di sovrapposizione tra personaggi e interpreti, è Johnny Depp, tornato in un ruolo di rilievo dopo gli anni di assenza dalle scene a causa delle accuse di violenza domestica. Pur esibendosi interamente in francese e avendo un ampio tempo su schermo, la star americana lascia un’impressione stranamente dimessa, restituendo una presenza fioca e poco elettrizzante, che gioca quasi esclusivamente sul suo glorioso passato cinematografico e sulla sua più ampia reputazione da attore in modi spesso affascinanti. Come regista, Maïwenn pone invece grande attenzione sui costumi e sulla scenografia: non ci sono gli anacronismi di Marie Antoinette (2006) di Sofia Coppola, ma c’è lo stesso interesse ossessivo per come i personaggi si vestono e, in particolare, per come portano i capelli. Il film fa anche un uso molto inventivo delle sue location di Versailles, dalla celebre sala degli specchi alle molte stanze secondarie e poco illuminate dedicate ai più bizzarri rituali della nobiltà francese. Dalle prime, freddissime, inquadrature utilizzate per trasmettere l’idea di un potere gigantesco quanto immobile, pian piano la macchina da presa si fa più libera e gli spazi si aprono a più felici e spensierati movimenti.

L’unica vera tensione drammatica della trama arriva con l’entrata in scena di Maria Antonietta, da cui dipenderà la possibilità per Jeanne di continuare a godere degli onori della Corte: solo se lei le rivolgerà la parola, la protagonista potrà essere considerata “degna” di rimanere al fianco di Luigi XV. Ed è per questo che tutti i suoi nemici (quasi esclusivamente donne) cercheranno di dissuadere la futura sposa del delfino di Francia dal dare confidenza a quella che considerano, invece, una vile usurpatrice. Ed è proprio nel sottolineare così violentemente la “misoginia” del sesso femminile (con eccessi di camp che trascinano il film lontano dalla sua sobrietà nei momenti in cui compaiono le sorelle del re) e nel ribadire la benevolenza (quando non esplicitamente l’amicizia) dei maschi, anche di quelli che si sono approfittati di lei, Jeanne du Barry finisce non tanto per dinamitare un ambiente patriarcale, ma per offrirgli con una piroetta una rappresentazione che ne rafforza l’immunità. In sintesi, un’operazione anti-establishment modellata e accolta dal sistema stesso.

Per il resto, anche se mancano solo pochi anni alla Rivoluzione francese e molti dei protagonisti qui mostrati saranno inevitabilmente destinati alla ghigliottina, la vita scorre straordinariamente tranquilla e distante da ciò che avviene fuori dal Palazzo. La sanguinosa conclusione della storia è affidata ad una ironica voce fuori campo e ad alcuni pannelli che ricordano allo spettatore le date in cui i personaggi principali, tra cui la stessa Jeanne, sono stati decapitati. Un timido avvertimento che anche la più inscalfibile egemonia può finire nel tempo di una dissolvenza a nero? Può darsi, ma, nel frattempo, non ci resta che fare i conti con quello che siamo. “C’est grotesque… No, c’est Maïwenn”.