Il teatro di Franco Scaldati è pura evocazione di sentimenti, impulsi, necessità, paure, aspirazioni. Dialogo poetico in cui si barattano le proprie solitudini, cosmogonia da tinello che contiene in sé tutta la sorpresa, lo sbalordimento, dell’incontro con l’altro, nel quale ci si specchia e che ci trapassa (come il mare che si riflette nel cielo stellato e viceversa), nella consapevolezza beckettiana che ogni individuo contiene in sé tutti gli altri e che ogni creatura sente vibrare in sé il resto del Creato a cui appartiene e con il quale si relaziona spesso con avidità e sconcerto. Lo spazio scenico è sempre un (micro) cosmo da plasmare con la propria voce, vuoto da riempire con l’enunciazione, l’elencazione che diviene rapsodia e che si fa profezia auto-avverante (le cose “compaiono” ai personaggi nel momento in cui vengono nominate).

Dal 29 aprile al 7 maggio, al “Ridotto” del Teatro Mercadante di Napoli, è andato in scena uno dei testi più famosi del drammaturgo siciliano, Assassina, con l’adattamento e la regia di Franco Maresco e Claudia Uzzo, in collaborazione con Umberto Cantone. Al centro c’è, ovviamente, ancora una volta l’uomo-attore, che «non è un mero strumento, ma il teatro stesso», come diceva Scaldati. Non si può pensare il teatro, infatti, senza fare i conti con la natura profonda di chi, per vocazione, si butta nelle sue fauci, abbandonando la voglia di esibirsi e la vanità, per compiere un percorso tormentato prima di tutto verso se stesso e solo successivamente verso il pubblico.

Così la Vecchina (Melino Imparato) e l’Omino (Gino Carista), i due personaggi principali di “Assassina”, forse anche loro interpreti sulla scena, vivono la propria relazione scambiandosi malinconie e ossessioni, in un contesto quotidiano, quello di una modesta casa a pian terreno, che diventa il pretesto per conoscersi ed escludersi reciprocamente. L’abitazione si trova in “via della Mosca Volante numero Cinquanta”, come perentoriamente ribadiscono i due in un perfetto italiano: uno stacco dalla lingua dialettale predominante che indica anche l’irrilevanza del possesso e della proprietà privata, l’estraneità del dato oggettivo in uno scenario in cui tutto è invece ambivalente. Come sempre, nel teatro di Scaldati, non esiste un’unica verità, né un’unica chiave di lettura dello spettacolo, ma solo sfumature e lampi di chiarimento che svaniscono nel tempo di un botta e risposta.

L’assenza del nome proprio delle due figure sulla scena è un dettaglio tutt’altro che banale, considerando che i nomi dei personaggi, nel teatro di Scaldati, ne determinano l’esistenza. In Totò e Vicé, ad esempio, altro celebre testo dell’autore, i due si chiamano per nome e solo così esistono. Si domandano se siano umani o animali, flora o fauna (“il fiore è confuso, non sa se è farfalla”), fatti di mollica di pane o carne, ma il divenire che produce indeterminazione e trasmutazione (le lacrime in marmo, il sangue in vermi) si definisce e diviene reversibile nel momento in cui si afferma l’esistenza attraverso il proprio nome. Se la voce è suono, la parola è realtà. Le cose accadono solo nel momento in cui le si dice e finiscono di accadere nel momento in cui si smette di parlarne.

L’Omino e la Vecchina, non è un caso, si differenziano innanzitutto per la loro fonetica: da un lato la predilezione dell’omino per le vocalizzazioni a-verbali, dall’altra la ripetizione poetica dell’anziana signora. Ogni cosa, quindi, “esiste” solo se “chiamata” attraverso la voce e il dubbio che aleggia sui nomi dei protagonisti di Assassina rende impossibile stabilire l’ontologia di queste due ombre appesantite dal ventre che le costringe frequentemente ad andare in bagno, a sedersi, a mangiare, a riposare. La loro identità rimane ignota fino alla fine dello spettacolo e proprio questa condizione di “anonimato” causa l’impossibilità di stabilire definitivamente il loro esistere, impone un domandarsi costante se si è vivi o se si è fantasmi, un mettere in costante discussione lo stare sul palco della vita-teatro (che mai come in questo caso coincidono completamente).

Identità sdoppiata sia maschile che femminile, che sfrutta anche l’ambivalenza funzionale di utensili e oggetti che dovrebbero, secondo il senso comune, corrispondere a un genere ben preciso: la Vecchina che reclama il sapone da barba per radersi le gambe, l’Omino che si dice disinteressato dal fatto che il suo ombrello possa essere considerato “da donna”. Solo agli spiriti che si sottraggono al mondo dei vivi, alla Fanciulla (Aurora Falcone) che vaga invisibile tra le stanze, è concesso il “lusso” di sfuggire all’ambiguità che è invece specifica dell’esperienza umana. Esperienza che non può resistere alla regressione nel primordio, alla conclusiva fusione in una cosmogonia mai fissabile nella singolarità dell’individuo, ma invece sempre palpitante di moltitudine. Quello degli spettri è un regno più facilmente comprensibile di quello degli umani: semplifica il corpo, lo libera dalle viscere e dalla complessità materiale.

Se la visione inganna e disattende - e Franco Maresco, da sempre maestro di narrazione cinematografiche sospese tra la realtà e la finzione, tra la documentazione e la manipolazione - la parola chiarisce, definisce. Si è maschi o femmine? In carne e ossa o allucinazione? Domande a cui non è possibile rispondere con lo sguardo, ma che necessitano di un’affermazione della propria esistenza attraverso la parola. Davanti alla scena, nell’adattamento per il Mercadante, uno schermo separa il pubblico dagli attori e su di esso la regia proietta una caligine “doppiata”, una ridondanza di nebbia, fumo, ombra, che confonde ulteriormente la vista. Una scelta cinematografica che rende ancor più significativo il “cominciamento” del teatro (anch’esso, come tutto il resto, annunciato attraverso la voce: «Cuminciamu»?).

L’esistenza si fa attendere, ma arriva, dirompente, in scena con una delle sue testimonianze più chiare e potenti: la morte che, retrospettivamente e incontrovertibilmente, conferma la vita che c’è stata. L’Assassina, quindi, come brillantemente sottolineato da Antonio Barbieri in un suo saggio sul testo, è la vita medesima, che, per trionfare, deve addirittura negarsi. E sta forse in questo uno dei (tanti) significati del teatro di Franco Scaldati: la negazione diventa abbondanza di tutto quello che non c’è, cornucopia di assenze e sparizioni. «Adagio svanisce la scena, come al cinema. Recitano, cretini». Si muore con la fine del testo, con la fine delle parole.

Foto di scena di Ivan Nocera